La luce oscura attende: intervista ai SONUM con Mirko Marchesini

I Sonum si sono fatti recentemente notare grazie all’ottima crescita artistica che hanno dimostrato e all’originalità della loro proposta, ovvero un death metal dall’impostazione classica, dalla composizione variegata, ben bilanciata e nobilitata da una produzione molto personale. Sono anche molto attivi dal vivo e così, dopo aver apprezzato l’ultimo The Obscure Light Awaits, abbiamo deciso di incontrare il chitarrista Mirko “Minkio” Marchesini e parlare a quattr’occhi degli ultimi sviluppi del gruppo.

Ciao Mirko, benvenuto su Metal Skunk. Visto che è la prima volta che parliamo, raccontaci brevemente come sono nati i Sonum.

I Sonum sono nati come evoluzione di una band precedente, i Sinatras, attiva tra il 2014 e il 2020 circa. Quel progetto era stato fondato dal nostro ex chitarrista Emanuele, reduce dall’esperienza con gli Strange Corner, storica formazione hardcore. Dopo la fine di quell’esperienza, Emanuele sentì l’esigenza di rimettere in piedi un nuovo gruppo, ispirandosi a sonorità alla Destrage, e così nacquero i Sinatras, di genere death’n’roll, con cui pubblicammo due EP e un album. Col tempo, però, io iniziai a influenzare sempre più la direzione musicale della band, complice il mio carattere piuttosto deciso e un gusto personale rivolto al metal più estremo, per cui il genere cominciò a spostarsi verso un death metal più classico. Questa trasformazione prese via via più consistenza, fino a quando ci rendemmo conto che il nome Sinatras non rifletteva più la nostra identità musicale. Decidemmo così di cambiarlo in Sonum. Nel frattempo, anche la formazione stava cambiando: entrarono un nuovo bassista e un nuovo batterista. È in questo processo di rinnovamento, tra evoluzione stilistica e nuovi ingressi, che sono nati i Sonum.

Ci spieghi meglio il vostro nome?

Avevamo il solito dilemma che hanno tutte le band, ovvero di trovare un nome corto ed efficace. Ci piaceva l’idea del latino, perché poteva rappresentare le nostre origini italiane, e in aggiunta abbiamo pensato: noi cosa facciamo? Suoniamo. Per cui abbiamo pensato a qualcosa che potesse rimandare alla musica, al suono, a quello di cui ci occupiamo, ovvero creare suoni. La parola latina per questo è sonum, che ci è piaciuta perché rimanda al suono in maniera molto semplice e diretto, così questo è diventato il nostro nome.

Qual è la vostra formazione come musicisti?

Ai tempi dei Sinatras c’era una forte matrice hardcore, soprattutto all’inizio, poi, con il passare degli anni, alcuni sono andati via, altri sono arrivati. Alla fine di agosto 2023, due anni fa, ci ha lasciati anche l’ultimo membro legato a quel mondo hardcore, che peraltro era il fondatore del gruppo; ha scelto di dedicarsi ad altri progetti, complici anche impegni personali e familiari. Oggi siamo rimasti in tre membri stabili, affiancati da chitarristi che ci supportano nei live e posso dire che attualmente siamo tutti metallari, pur con influenze piuttosto diverse tra noi. Il nostro batterista, Francesco Tresca, con cui condivido anche altri progetti, ha una formazione molto progressive, sia classico che moderno: tutto il prog italiano anni ’70, come PFM e Area, ma anche band internazionali come King Crimson e Gentle Giant, fino ad arrivare ai Tool, ai Leprous, ai Pain of Salvation e ai Dream Theater. In gioventù ha ascoltato anche tanto death metal: Death, Morbid Angel, Deicide e via dicendo. Io invece arrivo dal thrash, ma faccio prima a dirti cosa non ascolto, ovvero il folk e il power, che non fanno proprio per me. Tutto il resto lo ascolto abbastanza regolarmente. Il nostro bassista è il più giovane fra noi, ascolta molto metalcore, ma le sue basi sono comunque sui classici: è partito con gli Iron Maiden e da lì si è spostato su heavy, thrash e death metal. Insomma, oggi siamo tutti metallari.

Qualcuno di voi è musicista di professione, o siete tutti appassionati?

Questa è una bella domanda, perché spesso si assiste a questo paradosso: se la fai a un musicista di professione, è facile che risponda che non suona per lavoro, ma per passione; mentre se la fai a noi, che lo facciamo per passione, a volte ci giriamo intorno e diciamo: “Io sono musicista vero, un professionista”. In realtà facciamo tutti dell’altro nella vita per vivere, però a nostro discapito dico che per noi la musica è una cosa molto importante, molto vera, ed è a tutti gli effetti un secondo impiego. Siccome non è il nostro lavoro principale, è la nostra grande passione e cerchiamo di portarla avanti nel modo più professionale possibile, anche perché per portare avanti una band in un certo modo, ci vuole tanta dedizione e tantissima pazienza, oltre alla passione. Abbiamo la sola eccezione del nostro batterista Francesco, che è un architetto e lavora nello studio della sua famiglia, ma insegna anche batteria, quindi è l’unico che riesce a guadagnare qualcosa con la musica.

Qual è il vostro metodo per comporre?

Dunque, parliamo dell’ultimo disco: è proprio a partire da questo lavoro che le nostre dinamiche compositive hanno subito un cambiamento, almeno in parte. Come ti dicevo, attualmente siamo rimasti in tre membri fissi e questa nuova configurazione ha inevitabilmente influenzato anche il nostro modo di scrivere. In passato, le proposte creative arrivavano quasi sempre dai chitarristi, anche se il processo era comunque più distribuito. Ora, essendo rimasto io l’unico chitarrista, mi sono trovato a dovermi occupare direttamente di gran parte della scrittura. Dei dieci brani che compongono il nuovo album, compresi intro e outro, la quasi totalità è partita da me: ho scritto le linee di chitarra, basso e batteria, per poi proporle agli altri. Per i due o tre brani restanti, invece, il processo si è invertito: sono stati gli altri a portare le idee iniziali, ma seguendo lo stesso principio, cioè quello di elaborare il pezzo nella sua interezza prima di presentarlo al gruppo. In effetti, ognuno di noi ha sufficiente dimestichezza con più strumenti da poter strutturare un brano completo anche da solo: io, ad esempio, oltre alla chitarra suono anche la batteria, ho persino registrato un disco in passato come batterista, quindi ho ben chiaro come debba funzionare una parte ritmica. Allo stesso modo, Francesco, il nostro batterista, suona anche la chitarra, il che ci consente di scambiarci ruoli e responsabilità nella fase compositiva. Le parti di basso, invece, ce le suddividiamo o le elaboriamo a partire dalle idee principali, mentre il nostro bassista, pur non essendo un batterista, riesce comunque a programmare linee di batteria sufficientemente credibili da farci capire la direzione che intende prendere. Di solito, quando uno di noi presenta un brano, lo fa già in forma abbastanza definita: carichiamo le tracce, le condividiamo con gli altri e spesso includiamo anche le partiture o le tablature. A quel punto ciascuno ascolta, valuta e, se necessario, propone modifiche, che vengono integrate direttamente nella versione provvisoria del pezzo. Una volta trovata una struttura che funzioni e che piaccia a tutti, si passa alla fase di arrangiamento, in cui si lavorano le parti vocali, le rifiniture e i dettagli. Per quanto riguarda i testi, solitamente me ne occupo io, anche se non in modo esclusivo: spesso nascono da idee collettive o spunti degli altri, ma poi sono io a sistemarli, rivederli e adattarli alla musica. Insomma, anche se ognuno lavora in autonomia nella fase iniziale, il risultato finale è comunque frutto di un confronto continuo e di un lavoro condiviso, in cui ogni componente contribuisce in modo significativo al suono della band.

Quanta parte del lavoro viene fatta per conto proprio e quanta condivisa in studio?

Possiamo dire di essere piuttosto tecnologici: ognuno di noi lavora da casa, ritagliandosi il tempo necessario per scrivere, riascoltare, rivedere le idee che inizialmente sembravano valide ma che, a una seconda analisi, magari non convincono più, e per rielaborare da capo l’impianto dei brani. Il processo creativo avviene quindi in modo individuale, almeno nella sua fase iniziale. La vecchia modalità, quella in cui ci si trovava in sala prove per improvvisare insieme e buttare giù idee estemporanee, per noi ha perso di efficacia, un po’ perché ormai non siamo più ventenni, un po’ perché la vita, con i suoi impegni e responsabilità, impone ritmi diversi. Di conseguenza, cerchiamo di ottimizzare il tempo a disposizione lavorando ciascuno in autonomia. In questo ci viene incontro la tecnologia: come stiamo facendo ora io e te, riusciamo a confrontarci a distanza, a scambiarci le tracce, ad ascoltarle, rimandarle indietro con eventuali modifiche, finché la struttura del brano non è solida all’ottanta o novanta per cento. Solo a quel punto ci incontriamo fisicamente, mettiamo tutto sul tavolo e facciamo una sorta di “lista della spesa”: cosa manca, cosa va rifinito, dove si può intervenire. È in quel momento che il lavoro, partito in modo individuale, si trasforma in qualcosa di collettivo e prende la sua forma definitiva.

Adesso veniamo al disco nel concreto: secondo te che differenza c’è fra The Obscure Light Awaits e Visceral Void Entropy?

Fondamentalmente, Visceral Void Entropy è un gran bel disco secondo me, un lavoro di cui siamo ancora molto fieri, anche se, realisticamente, ha avuto una diffusione limitata ed è arrivato poco distante da dove è partito. Questo tuttavia è comprensibile, perché quando una band esordisce, si trova a dover sgomitare in un contesto saturo, in cui moltissimi gruppi cercano di emergere con mezzi spesso molto simili. La concorrenza è tanta e farsi notare è tutt’altro che semplice. Dal punto di vista stilistico, Visceral riflette ancora una certa fase di transizione in cui ci trovavamo rispetto ai Sinatras. L’intenzione di evolverci e definire una direzione più chiara c’era, ma alcuni elementi del passato, per esempio certi riff e certi groove, che rimandano a una scrittura meno focalizzata, continuavano a riaffiorare. In questo senso, è un disco che porta ancora con sé tracce evidenti del percorso da cui provenivamo e che non avevamo ancora completamente superato. Se lo guardo oggi con il senno di poi, lo definirei un album ancora parzialmente acerbo, sia in termini compositivi che produttivi. Avevamo fatto tutto in autonomia, dalla scrittura, agli arrangiamenti, fino alla produzione vera e propria e il risultato, per essere un’autoproduzione, è più che dignitoso. Tuttavia, ogni volta che lo riascolto, non posso fare a meno di pensare a certe scelte di mix o di mastering che oggi non rifarei: il suono è eccessivamente cupo, quasi ovattato, e in alcuni passaggi penalizza l’ascoltabilità delle parti. Questa consapevolezza ci ha spinti, con The Obscure Light Awaits, a correggere il tiro, optando per una produzione più trasparente e definita. Abbiamo volutamente evitato l’approccio ipercompresso e iperoscuro, che ormai è quasi uno standard nel death metal moderno, e ci siamo orientati verso un suono più equilibrato, che privilegiasse la chiarezza delle singole tracce pur senza perdere in impatto. Il fatto che, in questo secondo disco, io sia stato l’unico chitarrista ha sicuramente contribuito a una maggiore coerenza sonora. Avevo in mente un’identità precisa per le chitarre, e sono riuscito a portarla a compimento in maniera diretta, senza mediazioni. I miei compagni hanno contribuito con due brani e mezzo, uno dei quali è stato sviluppato collettivamente, ma anche in quei casi mi è stata lasciata ampia libertà interpretativa, proprio perché la responsabilità delle chitarre era tutta mia. Mi hanno detto chiaramente: “Queste sono le nostre idee, ma la maglietta la devi indossare tu”, nel senso che doveva comunque rispecchiare il mio tocco e la mia visione. Tutto ciò ha fatto sì che, a livello chitarristico e, di conseguenza, anche nella resa globale dell’album, The Obscure Light Awaits risulti più coeso, più maturo e maggiormente consapevole. Non è più un disco scritto a quattro mani, ma a due, e questo si riflette nella sua maggiore compattezza e direzionalità rispetto all’esordio.

Ascoltandoli dall’esterno, i due album penso si somiglino, nel senso che hanno entrambi una produzione personale, che esce dal già sentito e questo è un gran bene. Per quanto riguarda i brani, sento certe differenze sul nuovo, per esempio le prime canzoni sono le più tirate, anche più classiche, sempre all’interno del vostro stile naturalmente, mentre la seconda parte risulta più variegata, gli ultimi due brani in particolare.

Si, la suddivisione dei brani è stata pensata proprio in questo modo, come se fosse incisa sui due lati di un vinile. In This Void We Dwell è stato concepito appositamente per occupare la prima traccia del lato A del vinile e doveva quindi avere un impatto immediato, diretto, quasi “slayeriano” nel senso più viscerale del termine: l’idea era che, appena posi la puntina sul disco, ti esploda addosso e ti faccia subito capire quale sarà la direzione del viaggio. Dopo questo attacco frontale, la scaletta si sviluppa in modo più sfumato, fino a raggiungere il centro del vinile, dove, anche per una questione fisica legata al supporto stesso, l’intensità cambia e la resa sonora non può essere esattamente la stessa della traccia iniziale. A quel punto, si gira il vinile e il lato B si apre con una sorta di secondo “intro”, ovvero The Obscure Light Awaits, che rappresenta una ripartenza, ancora energica, ma che progressivamente cede il passo a una maggiore varietà espressiva, soprattutto negli ultimi brani, in cui le composizioni si aprono verso soluzioni più atmosferiche e articolate. Abbiamo voluto creare due ambientazioni ben distinte, una per lato, come se fossero due atti complementari della stessa narrazione. È vero che, ascoltato su CD o in digitale, il disco appare più altalenante, ma per noi non è affatto un limite. Personalmente, trovo che un album che mantenga un’intensità costante dall’inizio alla fine, senza mai cedere il passo, rischi di diventare faticoso da seguire e non tutti possono permetterselo. Forse solo i Suffocation riescono a reggere quel livello di tensione per un’intera tracklist senza risultare ridondanti. Io ascolto davvero di tutto e trovo che offrire all’ascoltatore momenti di respiro, variazioni dinamiche e cambi di registro sia fondamentale per mantenere viva l’attenzione fino alla fine. In fondo, è l’ascoltatore che deve potersi immergere nel disco e apprezzarlo nella sua interezza, senza che diventi una prova di resistenza.

Chi si occupa dei testi di solito?

Di solito se ne occupava il nostro cantante, su Visceral li ha scritti tutti Flavio, poi ci ha lasciato anche lui e così ci siamo ritrovati in tre a scrivere alcuni testi, ma la stragrande maggioranza li ho scritti io. Thomas, il cantante attuale, mi ha dato una mano per scriverne un paio di testi. I temi che affrontiamo nei testi sono prevalentemente introspettivi e ruotano attorno a una metafora centrale: quella della “luce oscura che aspetta”. È un concetto che esprime l’idea di una presenza costante e ineluttabile di oscurità che ci accompagna nella vita quotidiana, non solo come somma degli orrori del mondo, come guerre, carestie, o crisi globali, ma come una componente dell’esistenza umana, che si manifesta anche in maniera più sottile e personale. Non si tratta di un’oscurità intesa in senso assoluto o spirituale, ma piuttosto di una forma di inquietudine latente con cui ogni individuo, volente o nolente, si trova prima o poi a dover fare i conti. Con questo disco abbiamo cercato di restituire un’istantanea di questa tensione, come se fosse una fotografia in chiaroscuro di ciò che percepiamo intorno a noi. In alcuni casi, l’ispirazione è arrivata anche da suggestioni esterne: nei ringraziamenti, ad esempio, cito alcune frasi tratte da brani di amici, Vaio Aspis, una in particolare: con il tempo il cane impara a sentire l’odore di rabbia, che ha delle figure retoriche che mi piacciono un sacco e le ho sempre tenute a mente. Quando sento testi di certi cantautori che colgono qualcosa di profondo, li memorizzo e cerco poi di rielaborarli quando mi servono. Questo di cui parlavo è il concetto generale a cui siamo rifatti, che è molto astratto e lascia i testi aperti all’interpretazione: non offrono un significato univoco, ma si prestano a letture soggettive, intime. Non c’è alcun intento politico esplicito, anche se, lo confesso, a volte avrei voglia di dare una direzione più netta anche da quel punto di vista. Ma all’interno di una band si decide insieme e spesso prevale la volontà di mantenere una forma espressiva più universale, o perlomeno più ambigua. Parlando in dettaglio, In This Void We Dwell parla del vuoto esistenziale in cui quasi tutti si ritrovano: in superficie, molti si mostrano soddisfatti, giovani, forti, rampanti, mentre dentro, spesso, si cela un vuoto profondo e incolmabile, fatto di disillusione, perdita di senso, mancanza di valori e in quel vuoto, lentamente, ci si consuma, fino a morirne. Famine si rifà a un fatto storico, ovvero alla strage dell’Holodomór: fu una carestia forzata, imposta dal regime stalinista all’Ucraina negli anni Trenta. Non ci fu un conflitto armato, quindi non una violenza evidente, ma in realtà questo popolo fu messo alla fame con l’intento di sottometterlo e farlo arrendere al regime, ma quella gente preferì morire piuttosto che sottomettersi. Noi l’abbiamo vista un po’ in chiave anche religiosa, quindi il fatto di credere nel proprio dio fino a morire di fame per il proprio dio, o per quello in cui si crede. È giusto? È sbagliato? Non lo diciamo. L’intento non è giudicare, ma aprire domande. L’ultimo brano, quello che chiude l’album e rappresenta anche il momento più sperimentale e strano del disco, è stato scritto da Thomas. Si rivolge a un’entità oscura e si presenta come un invito a credere in se stessi, pur nella consapevolezza che si deve lottare anche contro le proprie ombre interiori, oltre a tutto quello che c’è fuori. Il testo non lascia spazio a troppa speranza: suggerisce che solo accettando la caduta, solo lasciandosi abbandonare nell’oscurità, si può forse rinascere. È un’immersione totale nella notte dell’anima, che culmina in quello che chiamiamo “il viaggio finale”: un transito simbolico verso una dimensione altra, ultraterrena, che si compie nel momento in cui l’anima si separa dal corpo. Un ultimo passo, forse di morte, forse di liberazione, che chiude il disco e il percorso narrativo con una nota ambigua, sospesa, ma coerente con tutto ciò che lo precede.

Sembra un concetto anche un po’ alchemico…

Assolutamente sì.

… il che ci porta a parlare anche della copertina.

Si certo: l’ho fatta tutta io e mi hanno accusato di aver usato l’intelligenza artificiale, ma in realtà no. Voglio spiegare: dopo che di recente sono uscite le copertine fatte con l’IA di Deicide, Pestilence, Grave, etc. la gente si mette a controllarle sul sito detect.ai, che rileva l’uso di intelligenza artificiale e restituisce la percentuale sospettata di essere stata generata da una IA. Qualcuno che ha fatto il controllo della mia copertina su detect.ai ne ha trovato una certa percentuale. Dunque, io faccio grafica da un po’ di anni e posso dirti che in questo caso abbiamo fatto di necessità virtù, ovvero: volevamo affidare la copertina di The Obscure Light Awaits a una bravissima artista, Sheila Franco, che ci aveva già fatto quella di Visceral Void Entropy, ma era troppo impegnata e avrebbe avuto dei tempi troppo lunghi. Così ho deciso di arrangiarmi e ho iniziato a creare delle immagini, che poi ho fuso insieme, ho disegnato dei particolari, dei personaggi… Alla fine ci sono voluti quasi cinque mesi di lavoro. Per disegnare io uso Photoshop, il quale, già da anni, integra delle funzioni AI negli script, anche solo per comprimere dei livelli, ed ecco il motivo per cui, presumibilmente, detect.ai dice che ho usato l’intelligenza artificiale, ma in realtà sono stati quegli algoritmi grafici, sui quali chi li usa non ha alcun controllo.

Non mi stupisce: gli algoritmi di rilevazione danno molti falsi positivi. Comunque hai fatto bene a specificarlo, adesso spiegaci l’illustrazione di The Obscure Light Awaits.

Secondo me è uscito un buon lavoro, che si apprezza soprattutto nel vinile, dove si vedono bene tutti i dettagli. Quello che abbiamo voluto rappresentare è questo mondo molto oscuro, dove non c’è anima viva in giro, però al tempo stesso è anche tumultuoso, agitato. C’è la presenza di un campanile, quindi la chiesa che fa parte di questo mondo, e un portale luminosissimo, sovrastato da un grande occhio, che è l’occhio del giudizio. La luce che esce dal portale è la “luce oscura” del titolo, che è un controsenso, una figura retorica forte nella quale abbiamo voluto rappresentare l’oscurità sotto forma di luce. Sulla sinistra, in ombra, si vedono tre figure incappucciate, tre monaci, che che saremmo noi, poi se si apre tutta la copertina, nella parte che è dietro al booklet, si vedono altri tre personaggi, che rappresentano gli ex membri dei Sonum: quello più vicino ai monaci è l’ultimo che se n’è andato, Lele, mentre gli altri due sono l’ex batterista Paul e l’ultimo in fondo è Flavio, il nostro ex cantante. Una cosa simile a quello che hanno fatto gli Opeth, abbiamo voluto ricordare quelli che hanno suonato con noi.

Che ruolo hanno oggi le case discografiche e i distributori?

Ho iniziato a fare musica più di vent’anni fa e inevitabilmente il mio approccio è influenzato da quella cultura e da quella visione. A Vicenza, come in molte altre realtà locali, ci si conosce un po’ tutti e seguiamo con interesse anche le nuove generazioni che si muovono su generi diversi dal nostro. Molti di loro sono cresciuti con un’impostazione profondamente legata al concetto del “non stare mai fermi”, ovvero pubblicare singoli a cadenza mensile su Spotify, autogestirsi in pieno spirito “do it yourself”, e così cercano di ottenere visibilità attraverso i social, le piattaforme di streaming e l’attività live. È un modello che può anche funzionare, in certi casi. Tuttavia, io, che appartengo a una generazione precedente e che continuo a ragionare secondo una logica forse più tradizionale, resto convinto di una cosa: se è vero che oggi è possibile arrangiarsi e portare avanti una carriera indipendente, è altrettanto vero che, senza il supporto di un’etichetta, si arriva solo fino a un certo punto. Ogni volta che si discute del ruolo delle case si tende spesso a puntare il dito contro le band, accusandole di non fare abbastanza, di non impegnarsi come dovrebbero. La verità è che anche le etichette, oggi, non sono più quelle di una volta: sono molto più selettive, meno presenti sul campo, e si muovono in modo diverso rispetto al passato. Nonostante ciò, il ruolo di una label resta ancora determinante, perché se pubblichi un brano su Spotify da solo, puoi anche investirci sopra quanto vuoi, in promozione e in visibilità, ma il pubblico che raggiungi sarà composto, per lo più, da ascoltatori occasionali, che ti incrociano per caso grazie alle playlist algoritmiche. Il pubblico che a costruirti in questo modo è molto estemporaneo, non si fidelizza e quindi sono visite che non portano a un seguito reale. Se, invece, il tuo singolo esce con un’etichetta nota e strutturata, metti con la Season of Mist, per fare un esempio, ecco che quel brano comparirà sul loro canale ufficiale, che ha decine di migliaia di iscritti. Verrà quindi visto, ascoltato e condiviso da un pubblico già selezionato, fidelizzato e interessato. Il lavoro dell’etichetta diventa quindi più chirurgico, più mirato e funziona, perché quel pubblico non è arrivato lì per caso, è cresciuto nel tempo, ha una sua identità e si fida del “marchio” dell’etichetta. In effetti, noto che ormai, anche tra i miei amici, si tende a seguire le etichette più che le singole band. In una conversazione tipica, quando chiedo se hanno ascoltato un nuovo disco, la risposta spesso è: “No, però la Dark Descent ha fatto uscire due album nuovi di due band interessanti”. Questo significa che l’etichetta è diventata un vero e proprio filtro di qualità: se so che un disco esce con etichette come Metal Blade, Season of Mist o Dark Descent, ho già un’idea precisa del tipo di proposta artistica che posso aspettarmi. E questo, nel tempo, ha modificato anche le abitudini d’ascolto: ci si fida di un’etichetta perché si riconosce nel suo catalogo un’identità coerente. Poi è ovvio che bisogna anche avere l’attenzione di andare a fondo, di spulciare le uscite, che non sono tutte uguali e ogni label ha i suoi alti e bassi. Ci sono però etichette storiche, penso a Peaceville, Earache e Roadrunner, che hanno avuto la fortuna di emergere proprio nel momento in cui il metal stava esplodendo a livello globale, e che hanno saputo intercettare e accompagnare quella crescita. All’epoca, però, c’era anche una mentalità molto più imprenditoriale: guardiamo cosa faceva la Earache con tour storici come il Grindcrusher Tour, dove metteva sullo stesso bus Napalm Death, Carcass e altri gruppi sconosciuti emergenti. Li metteva tutti insieme, organizzava concerti itineranti che erano eventi veri e propri, pensati per costruire una scena. Ogni volta che ne parlo con Denis della Dusktone, l’etichetta per cui lavoriamo, gli dico: “Guarda che stiamo cominciando ad avere un catalogo interessante, perché non pensiamo a un Dusktone Festival?”. Potremmo farne una prima edizione locale e, se funziona, esportarlo anche all’estero, magari toccando due o tre paesi con cui siamo già in contatto. Basterebbe trovare un partner che ci supporti logisticamente. Secondo me, questo è uno dei fronti su cui un’etichetta potrebbe davvero tornare a fare la differenza. Certo, i budget oggi sono ridotti, lo sappiamo tutti, ma proprio per questo serve visione e spirito di iniziativa. Anche nel metal, come in ogni altro ambito, chi riesce a distinguersi è chi riesce a costruire un ecosistema e a renderlo sostenibile nel tempo. 

Secondo te, nel tempo, è diventato più difficile promuovere un gruppo?

Oggi il panorama musicale è profondamente cambiato rispetto a quello di qualche decennio fa. Un tempo, per un gruppo emergente che cominciava a farsi notare, era normale riuscire a vendere anche tremila copie di un disco, numeri che oggi sembrano quasi irraggiungibili, se non per band già affermate. In effetti, arrivare a quelle cifre è ancora possibile, ma solo se si ha alle spalle una spinta promozionale molto ben strutturata, che sappia posizionare il progetto nei giusti circuiti, con una comunicazione efficace e professionale. Di contro, è vero che oggi ci sono molte più possibilità di suonare dal vivo. I concerti sono aumentati, sia in termini numerici sia qualitativi: l’offerta è più ampia e variegata rispetto al passato. Una volta il divario tra i grandi eventi, come un concerto degli Iron Maiden, e la scena underground era enorme. Le band emergenti si muovevano all’interno di un mondo fatto di piena artigianalità, sia nelle incisioni che nella dimensione live. Ora, invece, anche nella fascia media o bassa, ci sono tecnologie, strumenti e standard che permettono di raggiungere una qualità molto più elevata, pur restando nel circuito indipendente. Tuttavia, ci sono ancora molte criticità, in particolare nel rapporto che si crea tra band emergenti e booking agency. Anche in questo ambito, come in quello delle etichette discografiche, ci sono realtà serie e altre meno trasparenti. Non è giusto demonizzare tutte le agenzie, ma è necessario riconoscere che esiste una componente del settore che lavora con logiche discutibili, a volte proprio scorrette. Lo stesso vale per certi promoter: avendo esperienza diretta anche nell’organizzazione di concerti e festival, posso dire con franchezza che a volte vedo comportamenti inaccettabili. Alcuni colleghi sembrano dimenticare che, senza il rispetto per gli artisti, non esiste evento che possa definirsi tale.

Da parte dei gruppi cosa serve?

Adesso dico una cosa che rompe l’idealismo e il romanticismo: è fondamentale che una band arrivi a vivere come un’azienda. Non lo intendo nel senso di snaturare la propria passione o pensare solo a far soldi, però bisogna essere consapevoli che ogni progetto musicale è, a tutti gli effetti, un investimento. Investire tempo, denaro, mezzi e risorse è inevitabile, ma bisogna sempre valutare con lucidità se quell’investimento è sostenibile e se porta a un reale ritorno. Una band deve interrogarsi costantemente su quanto vale la propria proposta, su quali strumenti ha a disposizione per crescere e su dove vuole arrivare. L’alternativa è illudersi, o peggio, bruciarsi. Anche le grandi band, che oggi sono i nostri miti, hanno cominciato così. Gli Iron Maiden non sono esplosi dal nulla, hanno fatto una vita difficilissima all’inizio, e lo stesso vale per i Metallica, i quali durante il tour di Kill ‘em All, quando erano dei diciottenni brufolosi senza un soldo, giravano gli Stati Uniti in furgone, finanziati da John e Marsha Zazula. Prima di arrivare a guadagnare qualcosa e a vivere di musica, hanno investito moltissimo. È proprio in quel passaggio che si misura la reale tenuta di un progetto: nella capacità di affrontare la gavetta con serietà, pianificazione e visione a lungo termine. Un altro aspetto importante riguarda la dinamica del mercato attuale: il metal, rispetto ad altri generi è marginale in termini di visibilità e di investimenti. Non gira molto denaro nel nostro mondo e la promozione spesso si basa su dinamiche a volte difficili da prevedere e da capire. Ti faccio un esempio che abbiamo da poco vissuto noi: dopo l’uscita del nostro ultimo disco, abbiamo fatto una sola data, il release party a Pasqua Pagana. Lì abbiamo venduto bene il merchandising, ma nel complesso le vendite, sui vari canali compre anche Bandcamp, sono rimaste piuttosto ferme. Parlando con Denis [della Dusktone], abbiamo constatato che questa situazione non riguardava solo noi, era una condizione generalizzata. Allora mi è venuto in mente che noi avevamo fatto uscire il nostro disco il giorno 11. Lo stesso giorno è uscito l’album dei Messa e negli stessi giorni ci sono state almeno altre dieci uscite di genere vicino al nostro. In una situazione del genere, un gruppo come il nostro non può pensare di sfondare se esce in mezzo a tutti questi concorrenti, perché il nostro pubblico ha finanze limitate e, soprattutto a primavera, quando iniziano i festival, escono tanti dischi e magari uno deve già pensare alle vacanze, deve fare delle scelte. 

Adesso continuerete a suonare dal vivo per promuovere il disco?

Di recente abbiamo partecipato al Death in Cembra a Trento [14 giugno], poi durante l’estate non avremo impegni e penso che cominceremo a lavorare su materiale nuovo. Dopodiché da ottobre abbiamo un po’ di festival: saremo il 4 e 5 ottobre all’Arcanum Fest di Mantova, poi a Roma al Rome Carnage Extreme Fest con i Desaster il 18 ottobre al Defrag, poi parteciperemo a una data coi Fulci; il 6 dicembre saremo di spalla ai Forgotten Tomb all’Extreme Fest di Cremona. Abbiamo rinunciato a una recente proposta di date europee due settimane fa, perché era una roba troppo esosa per noi, era per partecipare a una parte del tour che gli Atheist faranno per i trentacinque anni di Piece of Time, ma volevano davvero un sacco di soldi. Una cosa importante è che sicuramente, fra la fine dell’anno e l’inizio del 2026 faremo un tour europeo, come abbiamo già fatto per Visceral. 

Un ottimo programma. Molto bene Mirko, ti ringrazio per questa corposa chiacchierata e ci vedremo a qualche serata, vi teniamo d’occhio!

(Stefano Mazza)

Un commento

  • Avatar di weareblind

    Mamma mia che intervista. Mi vien da dire “così si fa”!

    Copertina bellissima, io mi sono anche rotto dei neoluddisti che hanno tutto sto tempo per provare a verificare se è stata usata una IA.

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