Abbiamo rivolto a MIKAEL ÅKERFELDT la domanda sbagliata. Troppo a lungo

Ultimamente seguo un po’ poco la nostra chat Telegram di redazione, poiché il tempo a mia disposizione scarseggia. Ho letto di sfuggita che l’Azzeccagarbugli era entusiasta del nuovo Opeth, e, reduce da una decina di giorni d’ascolto ripetuto del suddetto album, ho riflettuto su quel che sarebbe accaduto entro una manciata di giorni: su Metal Skunk si sarebbe parlato bene, anzi benissimo, del nuovo Opeth. Vedete, io non sono che un comunista proveniente dalle zone più remote e meno scolarizzate della Toscana, di conseguenza sono contrario alla libertà di parola e scrivo malissimo: era l’ora di mettermi, e subito, al lavoro su una recensione che equilibrasse un minimo l’incresciosa situazione che si stava venendo a creare.

Potrei scrivere la seguente frase e chiuderla subito: per molti anni abbiamo rivolto a Mikael Åkerfeldt la domanda sbagliata. Non abbiamo fatto altro che domandargli – per carità, per cortesia, per favore! –  di ritornare a cantare in growl. Non dimentichiamo l’atteggiamento completamente snob allorché, intervistato a riguardo, il compositore scandinavo, baffetto radical chic in bella vista, se ne usciva con battute alla cazzo di cane, tagliando corto e dicendo che quei tempi erano bell’e andati, che quella fase era conclusa, e che il luminoso presente corrispondeva al progressive metal scimmiottone di album come Sorceress. A fronte di The Last Will and Testament mi pongo una domanda: che fosse il caso di domandare a Mikael Åkerfeldt di pubblicar semplicemente un buon disco? Taglio corto: da Watershed (incluso) in poi conservo solamente ricordi distorti di questo gruppo musicale. Eppure si sta parlando di album che ho consumato, incluso l’odiato Heritage, che poi bruttissimo non era, ma appunto chiudeva i conti con il growl.

Belardi mentre cerca di convincere i suoi compagni di merende che è inutile aspettarsi nulla dal nuovo Opeth

Credo fermamente che a tenere gli Opeth con i piedi per terra, e con una massiccia dose di concretezza in pugno, fossero Peter Lindgren e Martin Lopez. I due diedero agli Opeth un suono preciso, e quel suono prevedeva un retaggio progressive edificato su una base fortemente estrema. Tutte quelle improvvise esplosioni umorali che hanno reso immortali canzoni come April Ethereal o The Drapery Falls, per non parlare del bendiddio insito in Still Life, era costruito su quel forte contrasto. E finché esso è esistito, o ha resistito, e non è subentrata la voglia di strafare che è peculiarità tipica di Mikael Åkerfeldt (gli album doppi, le esagerazioni settantiane di Ghost Reveries firmate Per Wiberg e via discorrendo) il giochino ha funzionato benone.

Oggi quei chiaroscuri che hanno reso Blackwater Park un album di notevole successo, per quanto già altamente “sperimentale” per l’epoca che la loro discografia andava attraversando, non esistono più. Mikael Åkerfeldt sovente riprova a farli rivivere, ma senza Peter Lindgren e Martin Lopez, ovvero le vere chiavi per attivare codesta magia, non gli riesce.

La reazione di Mikael Akerfeldt alle istanze belardiane

Vedete, una volta sono stato in vacanza in Francia. Comprai in un’edicola una rivista metal, tanto per sputtanare qualche soldo. In allegato vi era un compact disc intitolato “Black Metal”: conteneva svariate nuove uscite fra cui figuravano gli ottimi Mayhem di I am thy Labyrinth e – indovinate, indovinate – April Ethereal. Per quanto la complessità delle loro musiche non fosse elevata, gli scribacchini dell’epoca non erano riusciti a inquadrare i contenuti di My Arms, Your Hearse, e quindi l’avevano inquadrato nel black metal. Era un album particolarmente innovativo per un’epoca in cui tutti, nel bene o nel male, avevano contribuito a rinnovare il metal. Con assoluta certezza quella musica funzionava poiché era particolarmente semplice nella sua struttura.

Torniamo al presente, al ritorno degli Opeth odierni al growl: l’album è sostanzialmente composto di buonissima e godibilissima musica, che, presa singolarmente e non in funzione delle canzoni, non mostra cedimento alcuno. O almeno si ha questa sensazione per quattro tracce abbondanti, anche qualcosa di più. La quarta ha un break centrale coi flauti che è ai limiti delle colonne sonore di un vecchissimo film porno qualunque. La prima, al contrario, è l’unica che mi coinvolge un po’ più del resto del pacchetto: a suo tempo non ne scrissi un articolo particolarmente positivo, potete quindi tirare le somme.

Il problema è che gli Opeth hanno trasmesso, per un decennio abbondante, emozioni pure che non ci dimentichiamo più. E tutto finisce a confronto con esse, specialmente un album che ci restituisce il growl di Mikael Åkerfeldt.

La novità del nuovo Opeth è il subentro alla batteria di un trentenne finlandese (il cui nome non mi riesce proprio di scriverlo) in luogo di Martin Axenrot. Come batterista in generale preferisco il secondo, come batterista adatto agli Opeth preferisco codesto Waltteri eccetera eccetera. Martin Lopez resterà nella mia testa il batterista degli Opeth così come Thomas Stauch resterà quello dei Blind Guardian.

The Last Will and Testament, dicono, è il miglior lavoro degli Opeth dai tempi di Watershed. Un concept album ambizioso, motivo per il quale nelle photo session i Nostri si sono conciati come i protagonisti di Peaky Blinders, o giù di lì. Non mi dilungherò sul fatto che ribalterei i concept album in un cassonetto al solo sentirli nominare, il che mi accade dai migliori tempi del pur sempre amato King Diamond. È raro, ma non impossibile, che il giochino riesca, ma puntare alla realizzazione di un album metal dalla struttura e dai contenuti funzionali, partendo dalla storia dietro alle sue liriche, il più delle volte penalizza le musiche stesse, a meno che il gruppo non si trovi in uno stato definibile di grazia. Prima che li nominiate, lo so perfettamente che i Queensrÿche ci sono riusciti, e direi grazie al cazzo.

A parer mio, e tornando per un’ultima volta sulle musiche, c’è molta meno sostanza qui che in Heritage, e gli Opeth hanno cessato ogni ragione d’esistere dopo la pubblicazione di Ghost Reveries, controverso, per certi versi eccessivo, ma comunque belloccio. Reputo gli Opeth talmente importanti per la mia formazione metallara che le egregie musichette da essi composte dall’abbandono di Lindgren e Lopez in poi me le posso tranquillamente mettere sui coglioni a cuocere come uova.

E se fosse tutta una questione di (lotta di) classe?

Non riesco a tenere la soglia d’attenzione alta sulle musiche di The Last Will and Testament. Mi sembra d’essere sempre allo stesso punto, con Åkerfeldt e soci costantemente a cento all’ora su tecnica, arrangiamenti, in una dimostrazione di come stare a cazzo ritto con una chitarra in mano a suonare più per sé stessi che per il circondario. È musica bellissima ma è pur sempre musica da pizzeria, di sottofondo a una rimpatriata con gli amici. Non è musica da portarsi nel profondo del cuore per il resto della vita, come lo era Black Rose Immortal e buona parte di quel che è uscito sino a una The Leper Affinity. Gli Opeth non mi emozionano più, e, notate bene, non individuo neanche un vero e proprio filler in questa sontuosa scaletta d’inediti: solo il finale mi sfonda vagamente i coglioni, ma è tutto così livellato e omogeneo da non trovare una mia spiegazione razionale.

Mikael Åkerfeldt vi ha restituito il growl e ne siete felici? È stato un bel regalo di Natale? La prossima volta chiedetegli una nuova The Baying of the Hounds, nemmeno una Godhead’s Lament, il che non sarebbe umanamente concretizzabile nel 2025. E vediamo che sarcastiche risposte vi fornisce stavolta. Ne siete comunque altamente orgogliosi? Beh, forse non ricordate che razza di dischi della madonna uscivano fino a un quarto di secolo fa, mensilmente, senza cedimenti, per mezzo dei medesimi autori e di coloro che appartennero alla medesima generazione di metallari. Questo è pur sempre un dischetto – il migliore da Watershed? Ma che cazzo me ne frega – e un quarto di secolo fa sarebbe passato inosservato in mezzo a tutto il baìlamme che ci era concesso goderci. Accontentarsi sarebbe come accettare che è praticamente tutto finito. (Marco Belardi)

10 commenti

  • Avatar di Bacc0

    Ma lo è finito, io è da anni e anni che lo vado a ripetere.

    Qua il problema è che è tutto un impegno a mostrarsi bravi, arguti, arzigogolanti. Un batterista che non riesce a tenere lo stesso tempo per più di quattro secondi, le tastiere svulazzano, gli zuffoli zuffolano ma, gratta, gratta a mancare sotto sono i pezzi. E un disco metal senza pezzi è solo un sottofondo. Gli Opeth sono stati grandi non perché fossero musicisti sopraffini (lo erano, lo sono) ma perché sapevano scrivere grandi, pezzi, con grandi riff. E quindi boh, dò atto ad Akerfeld che a questo giro mi riesca a rompermi meno le balle, ci sono bei momenti, belle atmosfere ma finisce qui

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  • Avatar di Fredrik DZ0

    pensa te che io reggo solo Orchid… dopo diventa orchite. Ma penso che ognuno abbia un gruppo che per quanto esaltato dalla maggioranza non lo si regge… chi non sopporta i manowar, chi i nevermore…

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    • Avatar di Old Roger

      All’epoca avevo Morningrise su cassetta , e per quanto provassi ad ascoltarlo non riuscii a farmelo piacere, stranamente direi , visto che sono uno che non disdegna chitarre acustiche e passaggi atmosferici …. purtroppo pezzi di oltre 10 Min e il prog in generale mi smerigliano la sacca scrotale. C’ho riprovato 5/6 anni fa , con Sorceress e andai anche a vederli all’alcatraz nel tour di in Cauda Venenum , dopo essere stato velocemente edotto sulla loro discografia tramite playlist su Spotify ( cosa tocca fare per scopare…). Bel concerto , il buon Mikael ha un viso comica non indifferente , ma mi dà sempre l’impressione del tizio artista / bohemien / hipster a cui piace annusare la puzza della propria merda….se fosse stato meneghino invece che svedese sarebbe stato un mix tra Manuel Agnelli e i Baustelle

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  • Avatar di Coso

    Tu parli troppo.

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  • Avatar di weareblind

    A me ammorba tutta la loro discografia intera, sono coerente.

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  • Avatar di nxero

    Noi si è di quella razza che l’è fra le più strane, che bruhi si è nati e bruhi si rimane!

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  • Avatar di LukBlack

    Concordo per la maggior parte il ragionamento. per me pochi pezzi rimangono veramente impressi. il resto è tutto passabile, e fatemi dire una cosa per me molto dura: sono stato 15 anni ad aspettare il ritorno del growl, e con questo album mi ha dato fastidio ascoltarlo, perché ormai il sound è cambiato, è stato sorpassato già ai tempi il punto di non ritorno e se ci fosse scritto Opeth sui titoli delle canzoni direi “fighi cazzo” ma io me lo ricordo diversamente, per me quando si Parla di Opeth penso a Deliverance in giù fatta eccezione per Ghost Reverie che per uno a cui piace il prog è l’apice della loro evoluzione ma non l’album migliore. Tanta attesa, per poi vedere un Mikael che parole sue, si è convinto per puro caso a fare dinuovo un album metal, solo per appropriarsi nuovamente dei consensi dei fan di vecchia guardia. Si vede nel modo in cui parla dei suoi pezzi che spesso sembra che li schifi, che distorcere una chitarra o la voce sia banale e poco stimolante. Uno che compone per fare esercizio di stile per me non è più un compositore, ma una persona che ormai se la crede troppo.

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  • Avatar di lucaciuti

    A me sconcerta il fatto che il dibattito fra i fan della band ruoti esclusivamente attorno al growl, come se tutto il resto non fosse rilevante. Da una fanbase del genere non te lo aspetti. Per il resto, é abbastanza normale che l’ispirazione non sia più quella di un tempo, va detto che Akerfeldt non é uno che musicalmente sta con le mani in mano.

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  • Avatar di Tarantola

    Scusate… Ma questo editoriale/pseudo-recensione dovrebbe far ridere? Per carità, come dicevano i latini: “De gustibus non disputandum est”, ma se uno scrive che “The Last Will and Testament” è un dischetto che un quarto di secolo fa sarebbe passato inosservato in mezzo a tutto il baìlamme che ci era concesso goderci…forse è il arrivato il momento di considerare una bella visita all’udito. Avercene di band veterane, che riescono a scrivere ancora opere interessanti & stimolanti come questa. Questo disco suscita attenzione oggi, ma lo avrebbe tranquillamente fatto pure dieci o venti anni fa. Perché la buona musica non ha mica la data di scadenza.

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