MUDHONEY @Viper Theatre, Firenze – 12.09.2024
La regola generale con cui mi accerto se un concerto mi è piaciuto è la seguente: è così se, non appena lo spettacolo termina e faccio ritorno alla macchina, metto su un loro disco quasi in preda a un bisogno compulsivo. È successo ai Rammstein, è successo ai Mudhoney e sfortunatamente poche altre volte in questo avaro 2024. Almeno per noi fiorentini, perché, ne ragionavamo proprio ieri fra fotografi, soprattutto quest’estate dalle nostre parti non è potuto o voluto passare nessuno. Ometto i C.C.C.P. e ometto dall’altro lato della barricata i Necrot, e dei due avrei voluto godermi proprio i secondi.
Il Viper Theatre mi mancava tantissimo. Francamente non pensavo che i Mudhoney l’avrebbero in buonissima parte riempito, con un’udienza, peraltro, del tutto differente da quella che ha adornato la platea delle varie edizioni del Firenze Metal. Non c’erano metallari, anche se avrei scommesso di intravederne un nutrito numero. L’età media, di conseguenza, si è rifatta prepotentemente alta e a prevalenza maschile. Pensavo a questo concerto da alcuni mesi, perché faccio parte di quella frangia di metallari atipici che ammettono che il grunge ha scassato tutto quanto, pur senza incolparlo. Il metal anni ’80 si sarebbe scassato comunque, e il fatto che a Seattle si fosse creato un qualcosa di così forte, magico e dannatamente localizzato ha fatto sì che il fenomeno si prendesse tutte le responsabilità del caso. Sebbene sia nota la mia personale propensione per gli Alice in Chains, le attenzioni le rivolgo spesso ai primissimi anni in cui il grunge prese forma. Malfunkshun, Green River, Mother Love Bone e via discorrendo.

Un breve cenno biografico per tutti coloro che ai Mudhoney rivolgono un’importanza minima: allo scioglimento dei Green River per le cosiddette divergenze stilistiche – due volevano sfondare, due ritenevano che il movimento avesse tratti underground e così desideravano procedere – metà formazione finì nei Mother Love Bone. Stone Gossard e Jeff Ament, poi, alla morte di Andrew Wood fecero la storia nei Pearl Jam: il loro intento di sfondare direi che si sarebbe realizzato, seppur con qualche incidente di percorso.
L’altra metà dei Green River corrispondeva inizialmente ai nomi di Mark Arm, Steve Turner più un batterista che non c’interessa affatto. Turner si tolse dai coglioni in anticipo, sostituito da Bruce Fairweather. Tre anni più tardi si ricongiunse a Mark Arm e fondarono i Mudhoney: il loro intento di farsi i beneamati cazzi loro si era altrettanto realizzato.
I Mudhoney, qualora il grunge sia esistito come forma musicale concreta e dai tratti delineati con precisione, ne sono stati, se non gli inventori assoluti, fra coloro che contribuirono a dargli un senso. E che per secondi o per terzi cominciarono a portare contratti, riflettori puntati e quattrini nell’area interessata.
L’apertura della serata è però toccata agli olandesi Sowt, da Eindhoven, e al loro noise rock decadente. Sarò sincero: i Sowt hanno attaccato con il piglio giusto e hanno finito maluccio. Mi ero ripassato la loro musica nelle due o tre giornate precedenti, e, su disco, li avevo trovati interessanti eppure un po’ fiacchi. Dal vivo il materiale ha ripreso vitalità, soprattutto cominciando con Gimmie dall’ultimo Kids Hurting Kids, che è bella energica. Certi passaggi mi hanno ricordato Live Through This delle Hole ma stravolto da dissonanze e da un muro di distorsioni. Il titolo vincitore fra i brani proposti dai Sowt è con certezza Michael Caine. Dopo questa e dopo Kevin Spacey di Caparezza m’aspetto che da un momento all’altro qualcuno scriva, non so, Pedro Pascal e la butti a caso in un album grindcore.
Il problema del concerto dei Sowt dalla durata di circa un’ora è che non è mai realmente decollato. A metà set le code in prossimità del bar somigliavano in modo preoccupante a quelle sulla Salerno – Reggio Calabria e la gente s’ingozzava di birra. Io non differivo da loro, con la fotocamera momentaneamente riposta nello zaino.
Dei Sowt mi hanno colpito le improvvise esplosioni d’energia, caratteristiche di brani come Why, e le pose alla Kurt Cobain della cantante Danielle Warners, costantemente imbullettata come un paletto e con il collo sovente proteso verso l’asta del microfono, proprio com’era usanza del biondo frontman dei Nirvana. I Sonic Youth fra le ulteriori influenze, ma non in modo così lampante.

A questo punto il Viper Theatre cominciava a riempirsi in modo costante. I Mudhoney su disco sono l’anima sperimentale e garage rock del grunge. Dal vivo i loro pezzi sono diversi. Sono per metà – i classici del passato – rivitalizzati da un’attitudine e da un’impostazione sonora che è a discapito del garage rock. Sono grunge all’ottanta percento, sporchi, più incazzati. Per l’altra metà prendono un piglio completamente rock’n’roll finché, a due terzi del concerto Mark Arm, non molla definitivamente la chitarra e lascia il compito della sei corde al fido compagno Steve Turner. Se oggi vedessi su un palco Sean Kinney o Jerry Cantrell, li giudicherei degli ultracinquantenni completamente distaccati da quell’anima adolescenziale negativa di periferia che ammiravamo nei compositori ragazzini d’allora. Mark Arm e Steve Turner, non per la camicia a quadri in flanella del primo, sono invecchiati ma sono sempre loro, e si portano appresso proprio quello spirito dimenticato e logorato dal tempo e dal mutare della società americana. Ho adorato questo aspetto.
Mark Arm pesa pressappoco quanto uno ciascuno fra i miei cani, deve mangiare.
I Mudhoney, che, se non erro, presero il nome da un film degli anni Sessanta che sinceramente non ho mai guardato, li scopro completati da Dan Peters alla batteria, membro storico, e da un bassista che non è affatto Matt Lukin, l’ex Melvins. Controllo ed esce fuori che non è più nella band da una vita, a riprova del fatto che poco oltre il rientro su Sub Pop Records avevo praticamente smesso di seguirli.
Fanno un concerto spettacolare. Fanno una scaletta spettacolare, anche se è un po’ lunga e subito dopo il giro di boa qualche colpo è inevitabilmente perso: venticinque pezzi in totale, se fossero stati sedici/diciotto sarebbe stato perfetto. Dedicano molto spazio all’EP capolavoro del 1988 Superfuzz Bigmuff che tutti conosciamo nella sua versione espansa del 1990. Inevitabile che suonino Touch me I’m Sick e l’incredibile Sweet Young Thing.
Con grande spiacere di redattori e più in generale scribacchini buttano in terra una scaletta con i titoli tutti abbreviati – “vi si va in culo” – affinché le canzoni le si debbano conoscere per davvero. Per tutto il resto c’è setlist.fm. Quella scaletta mi ha ricordato per un attimo il booklet di Reload con una media di cinque o sei parole per ciascun testo.

Dedicano non pochissimo spazio al materiale più influenzato dal blues, nonché a quello recente, come Nerve Attack. Insieme a Paranoid Core è uno dei due estratti da Digital Garbage del 2018, che, l’ammetto, ho recuperato praticamente il pomeriggio stesso del concerto. La voce di Mark Arm è intatta. La sforza come un dannato, è sguaiato, è punk, eppure non è per niente afono. L’aiuta in un certo senso la costante presenza di riverbero ed echi, ma c’è tutto. Parla pochissimo con il pubblico, scherza sull’età media di loro e di tutti quanti noi. Steve Turner si muove come un grillo, ha cinquantanove anni e tiene botta. Il pubblico risponde bene, poga come non ho visto pogare neanche all’ultimo Firenze Metal, continua a bere birra finché non esce dagli occhi delle persone.
Completa l’opera Suck You Dry in un trittico che ci regala un encore pressoché perfetto, seguita da Here Comes Sickness e In And Out of Grace dai primissimi anni di carriera.
Mai visti dal vivo sinora, penso d’aver rimediato alla lacuna in extremis. I Mudhoney a sessant’anni sono ancora garanzia di energia e completa dominanza del palco: auguri a loro, alla loro coerenza e all’attaccamento che hanno nei riguardi di princìpi che non hanno mai tradito. A sfondare sono stati i più talentuosi ma anche coloro che hanno colto l’attimo e disposto di un frontman adatto a trascinare i rispettivi singoli e videoclip. Staley, Cornell, Vedder, Cobain e pochi altri. I Mudhoney sono sempre andati per la loro strada, e, per quanto non abbia trascorso le notti insonni ad ascoltare le loro pubblicazioni oltre Tomorrow Hit Today del 1998, la soddisfazione di godere di certi classici a pochi chilometri da casa si è dimostrata impagabile. Bravissimi. (Marco Belardi)

Su Setlist non c’era Flush the Fascists, l’ho aggiunta io più o meno a metà set.
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