Vecchi arnesi per nulla arresi: MELVINS, HIGH ON FIRE, FU MANCHU
Se vi dicessi che sono sempre al passo con le uscite dei MELVINS vi mentirei. Se mi diceste che non è vero che non tornate sempre su quei tre/quattro album che preferite (i miei: Lysol, Houdini, Stoner Witch) sareste invece voi a mentirmi. Detto questo, che King Buzzo non se ne stia con le mani in mano praticamente mai, a godersi la pensione, lo trovo meritevole di encomio. Ma quanto avranno venduto veramente, complessivamente, i Melvins? D’altronde, anche se a un certo punto il salto potevano farlo persino loro, han sempre scelto di restarsene nella penombra underground. Lo status di intoccabili d’altronde ce l’avevano e ce l’hanno tutt’ora. Meritato. E siccome di ragazzini talentuosi, là fuori, non è che pulluli, l’ascolto di questo Tarantula Heart suona comunque bello fresco, pimpante.
Fisso ad una batteria Dale Crover, all’altra c’è il prezzemolino Roy Mayorga, non uno stronzo qualsiasi. Il primo pezzo è una suite, Pain Equals Funny, che parte con una grandiosità classic rock e poi si impantana in uno sviluppo dilatato, space sludge. Magari non sludge-sludge, come il riffone della successiva Working the Ditch. ‘Sti vecchietti pestano ancora meglio di tanti ragazzini. Perché i Melvins col pilota automatico hanno comunque più idee di cento altri gruppi messi insieme. Poi magari non tutto piace per forza. Le dissonanze e le melodie 60’s grunge di She’s got Weird Arms non son roba da tornarci su spesso, come il punk anarchico di Allergic to Food. L’ultima Smiler, però, un heavy stoner parecchio heavy ed allegrotto, ti prende bene, ti mette allegria, come ascoltare le storie di certi vecchietti che ne hanno sempre una nuova da raccontarti. Anche se il racconto a volte si ripete e a volte non sai esattamente da che parte voglia arrivare.

Un altro che non si arrende mai all’età, ai radicali liberi e alle cospirazioni governative è Matt Pike. Ed è un peccato che non gli si stia dedicando lo spazio intero di una recensione dedicata, visto che è un po’ un vecchio zio per tutti noi, uno di quelli cui dobbiamo quello che siamo, oggi, più che a tanti parenti più o meno prossimi che ci tocca incontrare in occasione delle feste comandate, per un caffè e una chiacchiera che non va da nessuna parte. Il fatto è che, davvero, con gli HIGH ON FIRE non fa che scrivere e registrare sempre lo stesso disco, con minime, impercettibili differenze: lo svuotapista, come da azzeccatissima e leggendaria definizione del Greco. Quindi niente, di Cometh the Storm che dire: solita copertina sballona, solito suono incazzato, solita meravigliosa voce che se provo a imitarla per un verso o due poi non riesco più a parlare una settimana. Novità è che se n’è andato quell’assassino di Des Kensel dietro la batteria ed è arrivato Coady Willis dei Big Business, che quindi era confluito a un certo punto proprio nei Melvins (vedi un po’, che giro). Kurt Ballou ci mette il suono (e al solito, che gli vuoi dire), mentre Jeff Matz (ex Zeke ma della ballotta dal lontano 2006, quindi da un bel po’ di dischi) ci mette qualche “novità”, un po’ di mellotron e il baglama. Quella chitarrina tradizionale turca che pare una zucca col manico di una scopa infilato.
Già, eccola la novità, più o meno: alla fine son più di vent’anni che i californiani evocano orde barbare meglio di quasi tutti gli altri, e che c’è di più barbaro di un’orda turca che arriva dalle steppe dell’Asia centrale ad esigere il suo tributo di sangue e morte. Ma infatti di novità non parlerei, perché a memoria mi pare di ricordare più di un intermezzo o sfumatura mediorientale nella discografia passata e perché alla fine parliamo di uno strumentale soltanto, Karanlık Yol, carino e un po’ anonimo, se già avete minima confidenza con la musica turca antica o moderna (anche proprio minima, eh, come nel caso mio). Per il resto, Cometh the Storm è fatto di pezzacci e assalti. Nulla di male, ovvio, ma manca il gancio che ti stende. Li tiravano sempre fuori, un tempo (ho ancora i lividi per Rumors of War). Non pare riuscirgli più, al vecchio zio Pike, ma non è un gran problema. Perché alla fine le mazzate sui denti con vecchie armi medievali arrugginite ci continuano sempre a piacere e perché certi parenti, anche se ti raccontano sempre la stessa cosa, li rivedi con piacere, quella volta l’anno che li vai a trovare. Anche se si dimenticano ogni volta qualche pezzetto in più e quella solita storia, ormai, te la ricordi meglio te.

Quando ero ragazzino io era l’epoca d’oro dell’hardcore melodico californiano ed era pieno di gente più grande con le Vans, le camicie a scacchi, i berrettini con la visiera schiacciata e skate fisso. Ora mi capita di incontrarne in giro, di cinquantenni che continuano imperterriti a vestire uguale, anche rischiando di sembrare dei dinosauri vestiti da ragazzini, con qualche macchia della pelle o rugosità tra i tatuaggi, capelli pochi, ma barbetta bianca e ancora quello skate, roba che io mi ci sarei rotto il collo a sedici anni, figurati ora a quaranta. Gloria a voi, (lontani) cugini di noi rudi metallari che ancora non vi arrendete al declino ed al passare del tempo e delle mode. E quindi gloria anche ai FU MANCHU, che son tornati oggi con The Return of Tomorrow, anche se, mi perdonerete, a me dei Fu Manchu non è mai fregato moltissimo. Eresia? Io che di stoner mi sono abbeverato parecchio, perché dovessi preferire l’innocua versione un po’ punk (che non è una parolaccia) e per nulla visionaria di Scott Hill rispetto ai trip esplosivi di Kyuss, Monster Magnet e un’altra galassia di band (e pure dei Nebula) non saprei. Ma non è antipatia, la mia, tutt’altro. Come per gli skater: non è la cosa mia. E quindi lo skate stoner che piaceva a molti attorno a me, ma non a me, l’ho affrontato saltuariamente (all’epoca dell’ingresso in formazione di Brant Bjork, per esempio), ma non ho attecchito troppo. Certo, sulla carta lo skate punk rock col fuzz ci sta, forse è la voce di Scott che non mi va.
Comunque, The Return of Tomorrow suona fresco, come appena scongelato, quadrato, dritto, rock. Le melodie son quelle là, nulla, ma proprio nulla, di inaudito. Almeno nella prima parte del disco, che è quello che si chiamava un doppio (poi, ora, con lo streaming la differenza mica c’è). Nella seconda parte i nostri appendono lo skate al chiodo e si mettono a fluttuare nell’etere, con una serie di effetti space e dilatazioni sonore che richiamano quell’altro filone dello stoner che andava moltissimo, quello delle antenne spaziali e delle donne aliene seminude. Che tendenzialmente preferivo. Tipo gli Atomic Bitchwax, ma senza troppo blues ed esplosioni troppo deflagranti. No, non è mica un brutto disco, The Return of Tomorrow, è solo che mi scorre via senza lasciare nulla tranne una freschezza passeggera. Anche se il ritorno nostalgico, nel titolo, al futuro spaziale che sognavamo, ai tempi, non mi lascerebbe indifferente. Ma il tempo passa, con qualcuno meno generoso che con altri. E se il bassista Brad Davis pare ormai Paolo Brosio, i lunghi capelli di Scott Hill non lo ringiovaniscono più mica tanto. (Lorenzo Centini)



