Avere vent’anni: gennaio 2004

THE GATHERING – Sleepy Buildings

Barg: Una volta ero ragazzino e dovevo telefonare alla mia cottarella adolescenziale. Eravamo rimasti che l’avrei chiamata dopo cena, e ovviamente se fosse stato per me mi sarei mangiato un panino in piedi per poterla chiamare il prima possibile. Invece ero a cena con i miei nonni, e mio nonno mangiava lentissimo. Ha sempre avuto la tendenza a imbambolarsi mentre mangiava, a diventare riflessivo e prendere un boccone al minuto, seguendo un ritmo che io chiamavo Forest of Equilibrium. Questo accadeva soprattutto la sera, perché certe persone non capiscono più niente quando hanno sonno. Uno di questi era mio nonno, e un altro ancora, en passant, è mio figlio di due anni, che per esempio stasera, seduto sul seggiolone, a un certo punto è scoppiato in un pianto disperato coi lacrimoni perché voleva il suo biscotto. Era tranquillo, serafico, sornione, poi di colpo ha assunto un’espressione come se lo stessero torturando i vietcong e si è messo a gridare BISCOTTO DI DODOOOOOOOOOOOOO singhiozzando per cinque minuti finché non abbiamo capito che voleva un particolare tipo di biscotto che poi abbiamo individuato. Aveva molto sonno. E così mio nonno, ma con l’effetto opposto. Insomma eravamo a tavola da mezz’ora e mio nonno era entrato in zona funeral doom da un bel po’. Guardava fisso davanti a sé, prendeva bocconi piccolissimi e masticava pianissimo assorto in chissà cosa, con movimenti lentissimi. L’orologio scorreva, io avevo finito da un pezzo e mia nonna si era già messa a lavare i piatti. Mio nonno sembrava un video in moviola a cui ogni tanto si blocca la connessione, io lo guardavo e mi sentivo bruciare sulla sedia. Non c’era niente che potessi fare e tutto mi sembrava così assurdo e surreale, da film di Blake Edwards. Mi era salita un’ansia che a ripensarci mi viene l’ansia pure adesso, a cui si accumulava il nervoso e la frustrazione e il pensiero che quella magari si sarebbe pure risentita perché la chiamavo in ritardo. Ecco, questo è più o meno lo stato d’animo che mi ha messo addosso questa insopportabile lagna del cazzo del live acustico dei Gathering. L’ho riascoltato ora per scrivere il pezzo ma non lo voglio sentire mai più per tutta la mia vita.

BESATT – Sacrifice for Satan

Griffar: Il pezzo più memorabile del disco è l’intro Gloria Causa Satani, una specie di Padre Nostro dedicato al suo antagonista per eccellenza su base organistica con voce da prete che molto ricorda quella dell’attuale papa, che ovviamente nel 2004 era ancora di là da venire. La cosa più divertente sarebbe scoprire che gliel’ha recitata proprio lui, immaginate lo scandalo? Sarebbe buffissimo, credo mi farei tante di quelle risate che ne morirei soffocato. Gli altri sette brani di Sacrifice for Satan sono black metal classico e a dirla tutta abbastanza scontato, nonostante ripetuti tentativi di ravvivarne un po’ il sacro fuoco. Ma lo stacco thrash di Toast of Victory messo lì apposta per ospitare l’assolo è In the Sign of Evil in purezza e, più che esaltare, mi fa chiedere cosa ce l’abbiano messo a fare. Dovuto anche a una scelta di suoni non azzeccatissima (chitarre-zanzara compresse neanche fosse death metal, basso altissimo, batteria lontana all’orizzonte) il successore dell’eccellente Hellstorm ai polacchi Besatt non è riuscito benissimo. Ci sono ancora i riff incupiti che caratterizzavano il predecessore, ma sono meno, così come gli stacchetti di respiro con tanto di chitarra sciolta, sacrificati a una presenza più densa di passaggi thrash anni ’80 (moda che allora imperava). Ci sono anche scelte di cui credo poi si siano pentiti, tipo spezzare in due con un lungo periodo di soli effetti la pur buona The Circle of Disdain; tutto ciò inglobato in partiture che, ascoltate oggi, sembrano ancora più innocue. Nella loro discografia ci sono episodi decisamente più significativi, quindi non vi consiglio di reperirne una copia a tutti i costi; sappiate comunque che su Discogs se ne trovano di tutte le fogge e per tutte le tasche e che la ristampa in CD del 2010 (mi pare) ha una delle copertine più imbecilli di sempre, meritevole senz’altro di un Fartwork del nostro eroe Gabriele Traversa. Se proprio volete cercate la prima stampa, almeno la copertina non fa pietà.

DIONYSUS – Anima Mundi

Barg: In due parole, power metal svedese e nulla più, ma ai massimi livelli. C’è tutto in Anima Mundi: pezzoni meravigliosi (specie l’omonima e My Heart is Crying, con ritornelli da antologia), una voce spettacolare, una buona eterogeneità e anche una discreta cura degli arrangiamenti. Lo stile dei Dionysus rispecchiava perfettamente il canone svedese, specie nell’uso peculiare delle tastiere e di una coralità presente ma molto meno insistita rispetto ai corrispettivi gruppi crucchi. Eppure crucco era Olaf Hayer, il cantante, già al microfono nei primi album solisti di Luca Turilli, nei quali era stato utilizzato col freno a mano. Qui invece è la vera marcia in più, con la sua capacità di variare tra stili e registri, la sua capacità interpretativa e quel timbro squillante e beffardo che evoca bei ricordi degli Helloween dei tempi d’oro. Turilli invece l’aveva messo a cantare sempre altissimo e pulitissimo come un qualsiasi cantante power castrato standard di quei tempi. Gli ha però garantito la gloria eterna perché nel video di The Ancient Forest of Elves è lui a incoronare il Turillone e a consegnargli la spada magica con cui il muscoloso chitarrista distruggerà la Luna. A suo modo, e considerato l’anno in cui è uscito, Anima Mundi resta un piccolo classico che riesce sempre a mettere di buonumore.

MELIAH RAGE – Barely Human

Griffar: Ho sempre avuto una fissa per i Meliah Rage, gruppo power-thrash americano che ha avuto il solo torto di essere considerato una copia dei Metal Church per essere di conseguenza relegato nel cantuccio popolato dai gruppi sfigati. A parte il fatto che non è vero che copiavano i Metal Church, ma, fosse anche stato così, cosa ci sarebbe stato di male? Quando scrivi dischi come Kill to Survive e Solitary Solitude l’unico modo possibile di parlare di te e della tua musica è quello rispettoso. Non è andata così, già l’avrete intuito, e la band per sopravvivere ha dovuto scalare le montagne più aguzze nelle condizioni climatiche peggiori. Barely Human è il loro quarto album, pubblicato ovviamente da un’etichetta piccolina che lo distribuì poco e malissimo. Oggi c’è Discogs e, anche se quel sito sta degenerando sempre più verso il format negozio-di-lusso-per-collezionisti-milionari, se si ha la pazienza di aspettare si riesce a portare a casa un disco senza doversi svenare. I più giovani non comprendono la fortuna che hanno: io per portare a casa Barely Human ci misi circa due anni. Ne è valsa la pena, questo è un piccolo gioiello di power metal con riff da puro headbanging dal primo all’ultimo secondo: a partire dal brano iniziale Hate Machine passando per la più veloce Invincible, per la ballad con forte retrogusto Staind Ungodly oppure la lunga ed elaborata strumentale Rigid, dalle atmosfere quasi tecno-thrash dei migliori Heathen o Anacrusis. Un disco che non molla mai, non ha cedimenti e che vale senza dubbio la pena riscoprire, perché tanto già lo so che i Meliah Rage non avete la minima idea di chi siano. Ora lo sapete e non avete più scuse. Sono arrivati ad otto dischi in carriera se v’interessa, oggi è un bel po’ che non se ne hanno tracce e sembra che siano in procinto di gettare la spugna.

DARKESTRAH – Sary oy

Michele Romani: Ricordo che ai tempi questo debutto dei Darkestrah (non ho controllato ma penso sia l’unica band metal esistente proveniente dal Kirghizistan) ebbe una discreta eco nell’underground, anche per il fatto che si era mosso Kanwulf dei Nargaroth in prima persona per metterli sotto contratto per la sua etichetta Curs of Kvn, oramai chiusa da tempo. 47 minuti di durata per sole tre canzoni presenti (di cui la seconda interamente strumentale) che si possono riassumere in un pagan black metal vecchia scuola molto particolare, il quale può ricordare lontanamente quello dei Nokturnal Mortum periodo di mezzo, distinguendosi però soprattutto per lo svariato utilizzo di strumenti folk e tribali tipici della loro terra d’origine. Anche se non sono esattamente un amante dei lavori con poche tracce di una lunghezza smisurata, devo dire che questo Sary Oy scorre piuttosto piacevolmente, pur non trattandosi di roba da tramandare ai posteri. È comunque una proposta abbastanza inusuale che ha bisogno di più ascolti per essere assimilata appieno.

EVILFEAST – Mysteries of the Nocturnal Forest

Griffar: Quando mi chiedono un gruppo polacco che valga la pena di ascoltare, il primo che mi venga in mente sono gli Evilfeast. Ancora non ho avuto occasione di parlarne perché (demo a parte, mai trovata in originale a prezzi meno che insensati) Mysteries of the Nocturnal Forest è il loro debutto nella discografia “che conta”: questo è un disco con potenzialità assolute in seguito esplose come una bomba nucleare. Devoto a un black atmosferico arrangiato nel modo più oscuro, tetro e angosciante possibile, Mysteries of the Nocturnal Forest contiene nove brani: tre sono strumentali impostati sulle tastiere, mentre gli altri sono pezzi di un black metal di base molto cadenzato con sonorità non dissimili dai pezzi lenti di Under the Sign of the Black Mark, di qualcosa di Burzum e con ogni tipo di divagazione, fino al fast black metal di scuola scandinava. Nell’incedere sono sovente accompagnati da tastiere maestose (provateci a rimanere fermi quando stacca The Black Heavens Open), le tracce di chitarra sono sempre due anche se di tutto il progetto si occupa una sola persona (Jakub Grzywacz, noto anche come Grim Spirit), e la voce è uno screaming di ispirazione prettamente norvegese, tenuto forse un po’ troppo in sordina. Appare evidente che l’intenzione principale dell’artista sia di coinvolgere con atmosfere suadenti e notturne, sì da tenere fede al titolo dell’opera, e il proposito è stato perfezionato in ogni suo dettaglio. Il debutto degli Evilfeast è un disco stupendo, e se pensiamo che successivamente hanno composto lavori persino migliori ve ne lascio immaginare il livello. Incommensurabili e imperdibili, fu uno dei dischi dell’anno anche se uscito a gennaio, ma a quei tempi il tempo (è una figura retorica che si chiama anafora, non cercate il pelo nell’uovo) non trascorreva frenetico come oggi, e un disco di gennaio a dicembre non veniva già considerato preistoria. Oggi a marzo un disco di gennaio è roba persa nella notte dei tempi. Tempi del cazzo, povero me.

HEAVENLY – Dust to Dust

Barg: Se volete fare uno scherzo a un fan del power metal, fategli sentire questo disco e ditegli che è un nuovo progetto collettivo tipo Avantasia e che deve indovinare i cantanti. Ditegli anche che è una beta version con la batteria fatta su Fruity Loops, però, perché di solito quei progetti collettivi hanno un budget altissimo e con i suoni che si ritrova Dust to Dust quello può mangiare la foglia e partire subito con ma che è sta cacata, e il gioco finirebbe subito. Se invece ci casca, di sicuro vi direbbe che c’è Andre Matos col fiatone dopo venti piani di scale di corsa, Tobias Sammet con l’enfisema, Michael Kiske preso subito dopo una sbronza epica, Kotipelto a letto con l’influenza e qualche altro. Invece a fare tutte queste voci è una persona cosa, tale Ben Sotto, pronunciato Sottò dato che è francese, anche se così sembra un insulto marchigiano. La cosa sarebbe apprezzabile se il suddetto Sottò fosse un imitatore che si esibisce in qualche spettacolo televisivo, non il cantante di uno dei gruppi con meno personalità della storia che salta qua e là da uno stile all’altro sempre con pessimi risultati e senza fare mai niente che possa essere lontanamente definito come personale. Stupisce solo che Sascha Paeth sia stato coinvolto, anche se immagino solo marginalmente, in questa robaccia.

QUERCUS – Nenia

Griffar: Ho più volte scritto che a me il funeral doom piace un botto, e che lo considero in certi casi persino più estremo del black metal, del brutal death, del grind o cos’altro vi piaccia di più. Allora è il caso di segnalarvi l’EP di debutto dei boemi Quercus, uscito in un freddo gennaio del 2004 dopo che l’anno più caldo di sempre (il 2003 fu spaventoso, a Torino si scioglieva l’asfalto dei marciapiedi nelle ore più calde, cosa mai vista prima né rivista in seguito) ci aveva abbrustolito le membra. Avevamo bisogno di freddo, avevamo bisogno di musica atroce per riportare il sangue a temperature più consuete (cioè sottozero). Il funeral doom dei Quercus è più sperimentale della media e spesso rinveniamo dissonanze e passaggi particolari, probabilmente ispirati dalla jazz/fusion. I tre pezzi di Nenia (considerato un EP, ma di quasi mezz’ora di durata) sono musica che ai più risulterà indigesta (come storia vuole che sia il funeral doom), ma a chi sa cercare e a chi è curioso di scoprire nuovi modo di comunicare emozioni suonando musica heavy metal faranno aprire la bocca in segno di stupore e ammirazione. E ghiacciare il sangue nelle vene. Avverto come sempre in questi casi che l’ascolto non è facile né immediato e che bisogna accostarvicisi con una certa predisposizione mentale, se no è difficile da reggere anche per un paio di minuti. È metal estremo ciò di cui si parla qui, e in questo modo va approcciato, altrimenti è meglio lasciar perdere; ragionando così, però, ci si perdono realtà meritevoli oltre l’immaginabile. Sono più di cinque anni che non fanno uscire un nuovo disco, spero che si spiccino.

SYMPHORCE – Twice Second

Barg: DISCONE CLAMOROSO che dovrebbe avere fama e popolarità pazzesca e invece non se l’è mai filato nessuno, e immagino che parte della colpa l’abbia anche una copertina imbarazzante coi cavallucci marini volanti. Twice Second ha uno stile che potrebbe piacere a varie tipologie di persone, perché pur essendo etichettato come power metal questo tutto è meno che un disco power metal. Per certi versi può essere definito prog, specie quando ricorda i conterranei Vanden Plas. Ma è assai cazzuto, come può esserlo un disco thrash, o quantomeno powerthrash di quelli particolarmente minacciosi, con pure episodici sprazzi groovosi/panterosi (sia detto nell’accezione più positiva possibile), e datemi del pazzo ma a me il gusto e le scelte delle chitarre spesso fanno pensare all’alternative metal anni Novanta, quello che aveva Soundgarden e Alice in Chains come fari nella notte. La cosa più power metal a pensarci bene è la voce di Andy B. Frank, cantante ormai storico dei Brainstorm e soprattutto dal timbro molto ma molto simile a quello di Dirk Thurisch, mitologiche vene del collo che si gonfiano dietro al microfono degli Angel Dust, altro gruppo sottovalutatissimo che spaccava il culo agli elefanti. Ascoltatelo, potrebbe seriamente stupirvi.

TYRANNY – Bleak Vistae

Griffar: Sempre di funeral doom si tratta in questo caso, anche se quello dei Tyranny finlandesi è più canonico e meno sperimentale. Partiture rallentate fino (od oltre) il limite dell’agonia, musica che non lascia filtrare alcun raggio di luce né la più tenue speranza. È tutto perduto, è tutto finito. Bleak Vistae è il loro esordio, a cui seguiranno solo due ful, usciti nel 2005 (Tides of Awakening, una meraviglia) e 2015 (Aeons in Tectonic Interment, il loro lavoro più torvo). La loro proposta esula da qualsiasi tipo di melodia, e qualunque cosa possa essere definita armonica od orecchiabile viene scartata a priori. I tre pezzi sono l’esatta trasposizione in musica della sofferenza interiore più stratificata, quella che non di rado porta a prendere decisioni autolesionistiche irreversibili. Non a caso il disco uscì per la Firebox records finlandese, etichetta dedicata a questo tipo di sonorità così estreme. Nel suo genere un vero capolavoro, tre brani che tra gli appassionati sono passati alla storia come vertice al quale bisogna anelare se si vuole suonare funeral doom come dio comanda; di sicuro non ci si alza al mattino ascoltando Bleak Vistae per iniziare in modo sfolgorante la giornata come Barbie, e se mai doveste farlo forse è meglio prendere in considerazione l’idea di farsi aiutare.

THUNDERSTONE – The Burning

Barg: I Thunderstone sono uno di quei gruppi di cui hai sempre un ricordo migliore di quanto poi effettivamente meritino. Ogni volta che riascolto qualche loro vecchio album rimango sempre un po’ deluso perché mi ricordavo meglio. Non so se a voi capita, ma a me con certi gruppi sì. Break the Emotions è un capolavoro e l’ho sempre messa in qualsiasi playlist power abbia fatto negli ultimi vent’anni, dalle compilation masterizzate a Winamp all’iPod a Spotify. La prima Until we Touch the Burning Sun è abbastanza carina, ce ne sono un altro paio gradevoli e il resto boh, varia da accettabile a trascurabile. Questi in generale avevano il vizio di fare così: un pezzo clamoroso a disco e il resto molto sotto. L’essere il classico gruppo finlandese freddissimo quadratissimo e rigidissimo non li aiutava di certo, quando le cose non giravano alla perfezione. Sono comunque indeciso se insultarli o lodarne il coraggio per la scelta delle tre cover messe come bonus track: Welcome Home (Sanitarium), Diamonds and Rust ed Heart of Steel, tre cose che al 99% come le fai le fai ti esce una figura di merda che rimarrà per sempre una macchia sulla tua reputazione e sulla tua credibilità. Noi gliele facciamo passare in cavalleria perché Break the Emotions spacca troppo, davvero, madonnina quanto spacca, sparatevela a manetta e mi ringrazierete. Comunque il disco non è male, in realtà. È che lo ricordavo meglio.

7 commenti

  • Avatar di Fanta

    Grande Griffar. Pensavo di conoscerli solo io i Meliah Rage.
    Voi diversamente “giovani” che leggete, recuperateli.

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  • Avatar di weareblind

    Dionysus ho provato, ma la tastierina zumpapà non fa per me. Proviamo i Thunderstone

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  • Avatar di Marco D'Ortona

    “Twice second” è un buonissimo album, che mi ha sempre ricordato “a dead heart in a dead world” come punto di ispirazione. Non che sia un male, ma dei Symphorce preferisco altri album più marcatamente “power”.

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  • Avatar di El Baluba

    dai Bargo, il live acustico dei The Gathering è molto bello. Magari qualche canzone non è venuta fuori in maniera perfetta, però in generale è un ottimo live e con Anneke in gran spolvero. Degli altri album, mi ricordo Sary Oy che all’epoca mi piaciucchiava, sicuramente la cosa migliore fatta dai Darkestrah. Ho vaghissimi ricordi dei Quercus che sicuramente ho sentito

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  • Pierre DuLavelle
    Avatar di Pierre DuLavelle

    Barg perdonami ma quello che – all’epoca – aveva dato 10 al live acustico dei The Gathering definendolo “un capolavoro” era un tuo omonimo? Giusto una curiosità, eh – capisco benissimo come in vent’anni molte cose possano comunque cambiare, inclusa la percezione di un disco.

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    • Avatar di trainspotting

      Come ho già detto al collega Traversa che l’aveva comprato apposta dopo la mia recensione, mi scuso moltissimo e do la colpa sia all’abuso di erbe aromatiche che all’epoca mi mettevano in uno stato d’animo più adatto per l’ascolto del disco sia al mio, sempre all’epoca, non ancora completamente passato innamoramento giovanile per Anneke van Giersbergen. Infine voglio citare uno dei più grandi filosofi del Novecento, Eugenio Fascetti, che affermava che solo le mucche non cambiano mai idea.

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      • Pierre Dulavelle
        Avatar di Pierre Dulavelle

        Assolutamente d’accordo con le parole del luminare del pensiero che hai citato, a quanti dischi io stesso – ma penso capiti o sia capitato a tutti, almeno una volta – ‘guardo’ ora con uno sguardo completamente differente. Momenti diversi, situazioni diverse – si era anche una persona, diversa.
        Grazie per la risposta e per l’onestà intelluttuale.

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