La mensa di Odino #23

L’anno scorso avevamo descritto gli STRAY GODS come il più grande gruppo clone degli Iron Maiden al mondo. Tutto confermato anche per il secondo album, Olympus: il gruppo greco continua nella sua ricopiatura minuziosa dei Maiden dei tempi d’oro, segnatamente il periodo Somewhere in TimeSeventh Son. In questo lavoro, a dire la verità, ci sono anche alcuni passaggi non immediatamente riconducibili alla band di Steve Harris, ma in ogni caso a ricondurre tutto ai Maestri ci pensa Artur Almeida, uno che deve aver passato anni nello studio matto e disperatissimo dello stile di Bruce Dickinson. Si potrebbe anzi fare un giochino, facendo ascoltare Olympus a qualcuno e dicendogli che si tratta del nuovo album di Dickinson o, quantomeno, di scarti di registrazione dei Maiden di fine anni Ottanta. Nove su dieci ci casca, come fece un tizio su una nota testata italiana recensendo un vecchio album solista di James LaBrie convinto che fosse il nuovo Dream Theater, solo perché la cartella che si era scaricato era presentata sotto quel nome. Che poi cose come The Sign segnano un certo scarto dalla matrice originale, quantomeno strumentalmente, ma non riescono comunque a scalfire la suggestione generale. Ora vi aspetterete che dica che Olympus è meglio di Senjutsu, però vorrei evitare, perché non mi piace dire ovvietà. Di sicuro se i Maiden riuscissero a scrivere oggi una Abel & Cain poi la farebbero diventare un cavallo di battaglia ai concerti e i loro fan ne parlerebbero estasiati sui loro meravigliosi gruppi Facebook. O forse no: dura solo quattro minuti e non ci sono arpeggini. Ad ogni modo ascoltateli, gli Stray Gods: se siete qui sopra vuol dire che vi piacciono gli Iron Maiden, e se vi piacciono gli Iron Maiden non potrete non apprezzare questi adorabili cloni argivi.

Durante la seconda guerra mondiale ci fu una competizione a distanza tra Germania e Stati Uniti per chi avrebbe costruito prima la bomba atomica. Hitler ci sperava davvero, soprattutto perché i suoi ottusi scherani glielo facevano credere. In quel bunker, nell’ora fatale del Götterdämmerung, la speranza della “imminente arma definitiva” veniva ripetuta spasmodicamente, rinfocolando quell’innato senso ottimistico tedesco che infiniti lutti addusse alle genti d’Europa. Lo dichiaravano spavaldi i gerarchi, lo ribadivano i tirapiedi, lo sussurravano le segretarie, lo ripetevano i cittadini tedeschi, esausti e inquietati dalle orde barbariche in arrivo da Oriente. Purtroppo per loro (e per i Giapponesi) ci arrivarono prima gli Americani. E, così come il terrore nucleare segnò profondamente l’immaginario nipponico, che immaginò enormi mostri distruttori creati dalla radiazioni atomiche, la fascinazione per la mancata bomba è stata esorcizzata dai Tedeschi grazie ai PRIMAL FEAR. Il nuovo album si chiama Code Red e vi esorto a diffidare di chi lo recensisce con un’approfondita disamina perché questo è il loro quattordicesimo (QUATTORDICESIMO) disco ed è identico a tutti gli altri. Che poi voi ve lo immaginate qualcuno che si siede al computer, apre un qualche sito di recensioni e dice: “Ahhh, che bello: la recensione del nuovo Primal Fear. Mettiamoci comodi e leggiamo le specifiche tecniche e la descrizione dello stile compositivo, sono proprio curioso di sapere com’è”. Cioè, dai cazzo. Comunque, se volete una descrizione, eccola qua: BUM BUM BUM. Come al solito si alternano pezzi carini ad altri trascurabili; nessuno è brutto e nessuno è un capolavoro. La migliore è forse Bring that Noize, col ritornello in growl (!), ma in generale Code Red è un po’ meglio della media degli ultimi dischi, quindi è buono. Bello il testo di Play a Song, coraggioso quello di Cancel Culture (anche se musicalmente meh), che gli ha già attirato il sarcasmo dei soliti sveglissimi soggetti con gli occhiali sui social network, e poi segnaliamo che c’è un pezzo che si chiama Steelmelter. Come cazzo è che nessuno ci aveva mai pensato prima. STEELMELTER. Se ci fosse ancora Msn cambierei immediatamente nick in STEELMELTER. Sempre viva gli statuari bicipiti di Ralf Scheepers.

Chiudiamo parlando degli ASKHEIMR, perché lo avevo promesso. Questo è infatti l’altro gruppo di Mathias Hemmingby, quello degli Eldamar, il mio più recente gruppo feticcio in ordine di tempo. Quest’anno è uscito il loro debutto omonimo, a quanto mi pare di capire autoprodotto, e stilisticamente non potrebbe essere più diverso dalle soffici atmosfere nevose evocate dagli Eldamar. Siamo più o meno a metà tra i Dimmu Borgir di Spiritual Black Dimensions e i primi Children of Bodom, con l’Hemmingby che si profonde in una serie di versi in stile Alexi Laiho dei tempi d’oro (YAUH, avete presente). Io personalmente detesto i Dimmu Borgir post-Enthrone, mentre coi Children of Bodom ondeggio tra l’apprezzamento e la rassegnata sopportazione; ne consegue che il mio giudizio verso l’album in questione dipende dai momenti. Non avrei mai recensito Askheimr se non fosse per la presenza del venerabile Mathias, e mi sento di consigliarlo solo ai nostalgici dei due gruppi ispiratori di cui sopra. Ora torno a sentire la cover di Land of the Dead per la milionesima volta. (barg)

3 commenti

  • Avatar di weareblind

    Il primo degli Strati Gods mi piacque parecchio, mi lancio sul secondo. Recensione perfetta per Code Red.

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  • Avatar di nxero

    Alcune volte mi domando se abbia ancora senso concentrasi sull’ ennesima uscita dell’ennesimo clone… seguo il vostro lavoro (e mi piace) ormai da anni, capisco anche le motivazioni ma onestamente a volte il quadro che ne risulta è quasi avvilente: sembra quasi che la musica pesante si sia ridotta a rifare meramente se stessa. Invece esistono delle belle realtà, soprattutto in Italia che dicono il contrario… forse anche un’occhiata altrove meriterebbe di essere data: quest’ anno ci sono stati dischi pazzeschi tipo gli Stormo, i Carmona Retusa, i Tsubo per fare i primi tre nomi che mi vengono in mente… ed è gente con una personalità bella e fiera, non l’ ennesimo clone greco, peruviano e filippino. Ok, ora la smetto prima che qualcuno mi attacchi la solfa del “se non ti piace non commentare”.

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    • Avatar di Sam

      Le critiche non argomentate o fini a se stesse meritano un bel “se non ti piace, non commentare”.
      Il tuo commento è argomentato e nasce chiaramente da riflessioni personali. Quindi, per conto mio, leggo sempre volentieri commenti che forniscono spunti e nuovi punti di vista.
      I fan-boys che replicano ad ogni critica con un “se non ti piace, non commentare” sono i primi ad avere argomentazioni zero e salami interi sugli occhi. Sarebbe da non considerarli proprio

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