Pesca con le reti a strascico #5: CRUEL FORCE, BLOODLETTER, GRAVERIPPER
CRUEL FORCE – Dawn of the Axe
Il piglio nelle photosession è da gruppo invasato coi Bathory e con certi scatti storici dei Mayhem; i titoli non lasciano dubbi, cominciando dall’inequivocabile Under the Sign of the Moon. Lungi dal volerli definire una cover band, i Cruel Force sono tedeschi e si dichiarano amanti della scena thrash estrema di fine anni Ottanta. L’album attacca in scia al metal classico oltranzista dei Venom e procede senza intoppi sino alla sua conclusione. Lodevole il loro ritorno in seguito a lunghissimi anni di silenzio, dodici per la precisione. Dawn of the Axe sarà etichettato come blackened thrash soltanto perché questi qua bestemmiano non meno dei connazionali – e rumorosissimi – Desaster, ma è metallo anni Ottanta allo stato puro, oltretutto spinto da un acceleratore fisso a tavoletta e da un’attitudine priva di compromessi. Divertimento totale, purché vi lasciate andare nelle mani di Michael Dall, in arte Carnivore, uno che negli anni di silenzio si era crogiolato in progetti come Megathérion e Sacrifixion e che dondola fra uno stile alla Cronos e un piglio appena più sguaiato ed energico, quasi alla Paul Baloff. I riff passano per gli imprescindibili Slayer e in particolar modo per quelli di Show no Mercy e dell’EP Haunting the Chapel, la loro fase più embrionale e squisitamente ottantiana. Se vi serve altro, è probabile che non meritiate niente. Con certezza uno degli album outsider della prossima poll: non nella prima e già formalmente completa decina, ma neanche così distante da sfigurare in essa. Io ci smatto per questa robaccia.

BLOODLETTER – A Different Kind of Hell
Non v’inganni l’acida voce del frontman Peter Carparelli: non sono europei, non sono cloni dei Destruction. I Bloodletter provengono da Chicago e il loro biglietto da visita si chiama Pat Armamentos. Ripetete il suo nome lentamente e capirete che, una volta schierato in line-up un Pat Armamentos, non occorrerà aggiungere alcunché. Dovrebbe presentarsi la Warner Bros. in ginocchio, a pregare affinché firmino un contratto con loro. Il problema di questi qua è però evidente: in pochi secondi e in ciascuna canzone, o quasi, si giocano troppe carte e si bruciano ogni parvenza d’effetto sorpresa. Il riff simil-black, il passaggio melodico alla Sami dei Kreator, il blast beat, l’assolo shred, il riffone thrash vecchia scuola. I Bloodletter hanno la smania di suonare in trenta secondi ciò che risulterebbe eccessivo anche in un’intera canzone. E l’effetto – negativo – si sente tutto. La produzione, per quanto moderna, è di discreta fattura e per un attimo ho pensato se ne fosse occupato l’onnipresente factotum Arthur Rizk, essendo confezionata in un modo tale da ricordare i suoi dilaganti standard. Non è così: porta la firma dello stesso Peter Carparelli, il chitarrista venuto allo scoperto per rubargli il lavoro. Alcuni brani, come ad esempio Bound and Ravaged, soffrono di una componente melodica assai melensa. L’ascolto di A Different Kind of Hell scorre tuttavia liscio come l’olio in virtù dei suoi trentacinque minuti di durata: un gran rimescolone che non delude e che nemmeno esalta. A quello ci pensa Pat Armamentos.

GRAVERIPPER – Seasons Dreaming Death
Non so se questo sia o non sia il debutto dei Graveripper. Due anni fa avevano messo sul mercato Radiated Remains, un generoso EP di nove tracce che comprendeva i tre brani del precedente EP, Complete Blinding Darkness, facendolo rassomigliare a una sorta di raccolta. Seasons Dreaming Death è tutto inedito ed è l’ennesimo caso di thrash metal etichettato frettolosamente come blackened thrash perché i vocalizzi urlano moccoli a quell’iddio e perché ci sono chiare tendenze all’ibridazione al suo interno. La sostanza è dunque molto distante dai Cruel Force. L’indole bestemmiatoria, quella no. Seppur americani, i Graveripper hanno un’innata capacità di omaggiare il metal estremo con passaggi che talvolta rasentano il black melodico. In tal senso è particolarmente indicativa la primissima traccia Open the Grave. Ogni pezzo a dirla tutta ha un suo momento la cui funzione è quella di rompere il muro di riffoni thrash in favore di atmosfera e melodia, e l’idea funziona. Migliorabili le linee vocali di Corey Parks, una sorta d’orso bruno in cerca di salmoni da scannare in prossimità di una cascatella, un rozzo, un animale di selva. Migliorabile anche la sua scheda anagrafica: dopo i Carnivore, i Peter Carparelli e i Pat Armamentos non puoi arrivare allo sportello ed essere semplicemente Corey Parks, mi comprenderai. Arrivate alla seconda metà di Divine Incantations, sentite il riffone black metal e il conseguente riattacco thrash e godrete come ricci. E forse vi domanderete perché il giorno in cui ci hanno provato i Dragonlord di Eric Peterson abbia funzionato così male. Dei tre album, tecnicamente è il migliore: grazie al Carrozzi per la tempestiva segnalazione. (Marco Belardi)
