MARILLION – An Hour before it’s Dark

È probabile che da me non ci si aspetti articoli che riguardano generi musicali al di fuori del metal estremo, ma come ho avuto modo di ribadire più volte io ascolto musica a 360 gradi: qualsiasi cosa mi tocchi le corde del cuore – o come diavolo si preferisca chiamarle – per me è ugualmente valido e degno di lode. Non fa differenza se il disco che mi fa venire la pelle d’oca si chiama Consuming Impulse o In the Nightside Eclipse, Selling England by the Pound o le Ouvertures di Rossini. Mi emoziona… e tanto mi basta.
Così, sorprendente o meno che sia, io ho sempre adorato la musica dei Marillion, li ascolto da tanto di quel tempo che ho perso il conto degli anni; e loro di anni di carriera ne hanno alle spalle eccome: credo che il loro primo disco Script for a Jester Tear compia 40 primavere quest’anno, una vita… Se non ho fatto male i calcoli, il nuovo disco uscito da poco è il diciannovesimo capitolo di una storia che a questo punto si spera non finisca mai, se il livello dei dischi che continuano a pubblicare a nome Marillion è questo. Non voglio scrivere che hanno solo e sempre inciso capolavori perché non è così: qualche episodio minore un po’ meno brillante ce l’hanno avuto anche loro, senza mai però naufragare nello svacco e piazzando comunque almeno la metà dei brani di ogni album ben al di sopra di ogni media statistica, riproponendosi poi in seguito su livelli proibiti ai più.
Lo si era già capito dal precedente F.E.A.R. che i Marillion sono un gruppo che sta vivendo la fase matura della carriera in forma smagliante, e An Hour before it’s Dark li vede proporre musica propria di un gruppo più in forma che mai, carico di idee vincenti, consapevole dei propri mezzi, di quello che vogliono offrire al proprio pubblico e di quello che il pubblico vuole quando compra un loro nuovo album. Rothery, Trevawas, Kelly e Mosley suonano assieme da così tanto tempo che oramai si trovano a memoria, difatti la coesione e l’unità di intenti del gruppo è così palese che fa venire la pelle d’oca il solo scriverne. Pezzi così straordinariamente bilanciati, con un amalgama perfetto così perfetto da far risultare l’intero migliore della somma delle sue parti, non si ascoltano di frequente; ogni strumento ha il suo spazio nel colorire questa musica di delicatezza, di atmosfere romantiche come paesaggi bucolici o emozionanti come l’abbraccio di una persona cara. Il tutto impostando il loro progressive rock in modo differente da quello che sovente (sbagliando) s’intende per tale, cioè un genere musicale che fa della complessità delle partiture e dell’estrema tecnica strumentale sfoggiata senza ritrosia la sua essenza. Non così qui: non che la perizia tecnica e gli arrangiamenti elaborati non si percepiscano, ma ogni pezzo scorre via in modo talmente lineare da dare l’impressione che la traccia guida sia la semplicità. Quindi niente diluvi di note che appesantiscono le partiture, ma solo quelle che servono per regalare emozioni e null’altro di superfluo. La voce di Steve Hogarth merita un discorso a parte, lui che purtroppo ha dovuto combattere da sempre contro la (demenziale) teoria che lo vuole mero rimpiazzo di Fish, e che col passare degli anni non solo ha fatto dimenticare il suo ingombrante predecessore ma lo ha pure superato in tecnica ed espressività. In An Hour before it’s Dark non si limita a cantare i testi, li interpreta. Gli dona un pathos ed una credibilità propria dei grandi interpreti operistici, la sua voce oramai diventata un quinto strumento musicale effettivo che impreziosisce non di poco tutto il lavoro fatto nella stesura dei pezzi e negli arrangiamenti di questi.
An Hour before it’s Dark contiene sette brani, uno dei quali (Only a Kiss) è una breve strumentale di circa quaranta secondi. Degli altri sei, quattro (Be Hard on Yourself, Reprogram the Gene, Sierra Leone e Care) sono divisi in sottomovimenti che nella numerazione del CD figurano come tracce singole e tali rimangono anche rippando il CD in mp3. Se leggete quindi che il disco ha sedici canzoni molto brevi non è vero, le loro tipiche lunghe suite orchestrali ci sono sempre… sotto mentite spoglie: Sierra Leone dura undici minuti, Care più di un quarto d’ora, e vorresti non terminassero mai. Notevolissimi anche The Crow and the Nightingale, quasi una ballad, e il singolo Murder Machine, relativamente più brevi e non divisi in capitoli. Come una bottiglia di vino pregiato, i Marillion invecchiando migliorano. Sarà un luogo comune ma è la pura e semplice verità, tutti dovrebbero ascoltare questo disco e capire che si può essere degli artisti coerenti e creativi senza inseguire il mainstream o svarionare in cerca di chissà quali nuovi miscugli e pozioni per rinfrescare un prodotto diventato stantio per forza dell’abitudine. I Marillion sanno fare rock progressivo, lo fanno in modo eccellente da più di quarant’anni e non hanno mai smesso di farlo. Ne è la riprova il loro ultimo disco, che mi fa dire con piacere: complimenti, che discone! Bentornati a casa, ragazzi. Il mondo è un luogo migliore anche grazie a voi. (Griffar)
So we live you and I
Either side of the edge
And we run and we scream
With the dilated stare
Of obsession and dreaming
What the hell do we want
Is it only to go
Where nobody has gone
A better way than the herd
Sing a different song
Till you’re running the ledge
To the gasp from the crowd
Spinning round in your head
Everything that she said
Una delle poche band in grado di commuovermi. Li seguo anche io da sempre e sottoscrivo ogni singola parola del tuo articolo.
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Hai citato un brano di “Afraid of sunlight”, che secondo me è sottovalutatissimo nella loro discografia. Una delle mie top 3 band di sempre.
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