Avere vent’anni: REFUSED – The Shape of Punk to Come

Qualche tempo fa girava su Facebook uno di quei giochini che nell’era dei social network hanno raccolto la pestifera eredità delle catene di Sant’Antonio, decuplicandone la diffusione e i conseguenti effetti urticanti. Nel caso specifico, il malcapitato che veniva taggato doveva elencare i dieci dischi più importanti della sua vita. Non i più belli, non i più amati. I più importanti.
Sul momento ho accolto l’inevitabile taggatura da parte di un amico buontempone con la medesima dose di fastidio e insofferenza che avevo riservato agli altri giochini dello stesso tipo. Nelle ore successive, però, il Nick Hornby che è in me ha cominciato a fremere e abbozzare classifiche immaginarie, tracciare pindariche top 5, censire fugacemente gli ascolti di un’intera esistenza. Al che ho deciso di prendere il toro per le corna e cimentarmi con la sfida.
Non senza una certa dose di sorpresa, la faccenda si è rivelata essere molto più seria di quanto potessi immaginare all’inizio. Cos’è stato più importante nella mia formazione musicale, Paranoid o Vol 4? Kill’Em All o Master of Puppets? Around the Fur o White Pony? Non ricordo di aver attraversato in tempi recenti fasi di dubbio più acute di quella, e le cosa mi ha tanto inquietato quanto stuzzicato.
L’unico album che non ho avuto alcuna esitazione a piazzare in lista è stato The Shape of Punk to Come dei Refused. Perché i Refused non sono stati solo un gruppo e The Shape of Punk to Come non è stato solo un album, per me e per tanti come me.

Prima di scrivere queste righe, sono andato a controllare le statistiche di Last.fm che da sempre uso come parametro ossessivo-compulsivo per tracciare e catalogare i miei ascolti virtuali (sì, il tempo passa ma il Nick Hornby che è in me continua a fremere). Volevo avere conferma di qualcosa che già sospettavo e infatti il dato lampante era lì, inequivocabile: da quando utilizzo il computer come mezzo principale per ascoltare musica (cioè da circa tre lustri, prima tramite mp3 scaricati più o meno lecitamente e adesso quasi solo con Spotify), The Shape of Punk to Come è stato il disco che ho sentito più volte. Il che, sommato agli innumerevoli ascolti su CD e su vinile (rigorosamente l’ormai introvabile prima stampa svedese su Burning Heart Records), lo rende con ogni probabilità il disco che ho sentito di più in assoluto nella mia vita.
Basta questo a determinarne l’importanza? Forse sì, forse no. Quello che è certo è che senza quest’album sarei una persona molto diversa da quella che sono ora, nel bene e nel male.


The Shape of Punk to Come: A Chimerical Bombination in 12 Bursts (il titolo completo dice tanto, se non tutto) è il punto più alto mai raggiunto dal punk hardcore e, per certi versi, è il suo canto del cigno. Ne è la sublimazione e al contempo l’epitaffio. Un’elegia incredibilmente lucida e consapevole, emblematica fin dal celeberrimo e autoironico incipit: They told me that the classics never go out of style, but they do, they do. Somehow, baby? I never thought that we do too.
E invece i Refused sapevano benissimo che non sarebbero passati di moda facilmente. Sapevano di aver tirato fuori un’opera epocale, un manifesto che avrebbe influenzato e plasmato un intero mondo. Lo scrissero nei credits, lo sottolinearono nella descrizione delle singole canzoni allegata al disco, lo manifestarono ripetutamente nei testi (How can we expect anyone to listen / If we are using the same old voice? / We need new noise / New art for the real people). Quel nuovo rumore di cui al tempo percepimmo solo il portato incendiario era in realtà un’onda il cui reflusso sarebbe stato destinato a durare a lungo.

I Refused di questo erano profondamente consci. Spararono altissimo, riprendendo il titolo di un’altra opera epocale uscita quasi quarant’anni prima, quel The Shape of Jazz to Come con cui Ornette Coleman aveva riscritto i canoni del jazz. Proiettarono il punk ingenuo degli esordi e l’hardcore classico di stampo newyorkese (i cui gruppi cardine vengono omaggiati nelle note) verso dimensioni fin lì inesplorate, dove Iggy Pop e Igor Stravinskij ballano un valzer suonato dagli Slayer. Alzarono l’asticella oltre il limite della loro stessa sopravvivenza come band, oltrepassando consapevolmente un confine da cui non sarebbero più tornati indietro, in una sorta di immolazione rituale senza via d’uscita (Refused Are Fuckin’ Dead).

Ma forse il vero fascino di The Shape of Punk to Come, il motivo per cui toccò il cuore di tanti di noi, risiede nel raffinatissimo manto politico che lo ricopre, un oceano di citazioni e suggestioni che nulla avevano a che spartire con il superficiale sloganismo un po’ fricchettone alla Rage Against the Machine. I Refused parlavano di poeti guerrieri, di coltelli tra i denti, di sangue e sudore, di ribelli romantici (A naive young secret for the new romantics / We express ourselves in a loud and fashionable way) che gettavano la loro vita oltre le macerie di una società frantumata. Era questo che un diciassettenne incazzato e insofferente voleva sentirsi dire, al di là delle possibili divergenze ideologiche rispetto alla matrice anarchica del gruppo. Erano queste le wrong songs a cui si riferiva New Noise, apice di una tracklist senza respiro, le stesse canzoni sbagliate su cui un adolescente coi pugni stretti in tasca sognava di ballare.
E fu così che i Refused divennero la colonna sonora della nostra personalissima rivolta contro il mondo moderno, contro il consumismo, contro la mediocrità. Una rivolta intima, elitaria, disperata e per questo bellissima. Rather be forgotten than remembered for giving in. La comprensione più profonda di un lavoro così immenso come The Shape of Punk to Come sarebbe giunta solo in seguito, con l’età e la maturità per poter apprezzare l’abbagliante grandezza di un affresco socioculturale dell’Occidente post ‘68 rimasto tuttora ineguagliato.

I Refused si sciolsero qualche mese dopo l’uscita di The Shape of Punk to Come, reduci da un fallimentare tour negli Stati Uniti e spremuti dalle tensioni interne e dallo stesso mito che avevano creato. Un mito che si alimentò nel corso degli anni generando schiere di epigoni più o meno fortunati e che ricevette la meritata consacrazione mainstream solo con la chiacchierata reunion del 2012. Poi sarebbero arrivati un altro scioglimento “definitivo”, i rumours di un nuovo album, l’allontanamento del chitarrista Jon Brännström, un ritorno discografico innocuo e quindi inutile. Nulla che non fosse già stato a suo tempo preconizzato dal cantante Dennis Lyxzén, che con la sua nuova band The (International) Noise Conspiracy aveva inciso un pezzo dal titolo tristemente profetico, Capitalism Stole My Virginity. Nulla che potesse intaccare la straordinaria epica di una leggenda nata nell’underground della provincia svedese e affermatasi con un impeto brutale nell’immaginario di tanti ragazzi cresciuti come me su quelle note, con quelle note e per quelle note. Nulla che fosse in grado di attenuare la deflagrante potenza di quell’urlo che dopo vent’anni cova ancora lì, nel cuore del ribelle romantico che si agita dentro ognuno di noi: Can I scream?

3 commenti

  • L’unico rimpianto che ho a proposito di questo disco è di averlo conosciuto parecchi anni dopo la sua uscita. Per il resto non posso fare alrro che sottoscrivere le ottime parole del recensore.

    P.s. a proposito della scena hardcore svedese, due paroline sui Breach? Secondo me Kollapse è ancora più devastante del capolavoro dei Refused…

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  • Era uno dei miei dischi preferiti…..bello bello bello…da ragazzino l’ ho ascoltato fino alla nausea…..ma ci sono rimasto di merda quando crescendo ho scoperto che hanno scopiazzato in quasi tutto i the nation of ulisses…..

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  • Sono assultamente d’accordo su Breach Kollapse e Venom sono due album criminalmente sottovalutati, d’accordo anche sul fatto che crescendo mi sia accordo che sono molto più derivativi di quello che pensassi, personalmente però penso che abbiano pescato molto anche da un certo cruppo di Washington DC con a capo Ian Mac Kaye…

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