AMORPHIS: la storia (parte 1°: 1991-1997)

Diciamocelo apertamente: gli anni ’90 sono stati per il metal quello che il secolo XVIII è stato per la musica classica. In quel periodo sono nate e cresciute più band valide che negli anni precedenti (nonostante la metal explosion degli ’80) nonché in quelli successivi, la primavera underground era vitalissima e ha visto la fioritura di quasi tutte le sotto-categorie più importanti. Molti di noi hanno cominciato a capire realmente e ad apprezzare le varie sfaccettature del metallo proprio in quegli anni. La nostra generazione è stata favorita almeno in questo (per il resto solo batoste e precariato). I nostri campioni di oggi sono un perfetto e rappresentativo parto della grande madre novantiana ed in particolare di quella suomi mommy che tanti sforzi ha fatto per noi. E oggi, se ci fate caso, cosa è che ci fa scrivere bene di un gruppo se non la sua impostazione “nineties” con tutto quello che ne comporta? E dove rischierete di incontrarci se non a qualche concerto di quegli splendidi quarantenni (come direbbe Nanni Moretti) che ancora si ricordano come si fa un serio headbanging?

Pur essendo grande più o meno quanto l’Italia, la Finlandia all’interno dei suoi gelidi confini ospita circa le stesse persone che “bazzicano” per Roma e dintorni (immigrati, Rom, persone non registrate e studenti calabresi fuori sede inclusi). È facile intuire quanto all’epoca fosse complicato incontrarsi per discutere di buona musica: si sa che i finlandesi nel 1990 andavano ancora in giro con le slitte e mangiavano alci crude per poi utilizzarne le corna come arpe. Si scherza, ma quei “quattro gatti” che avevano deciso di dedicarsi al sano metallo non scherzavano affatto. Si conoscevano tutti e sapevano che bisognava solo aspettare l’occasione giusta per incontrarsi e dar vita a quello che, dopo la Finlandia di Jean Sibelius, sarà il maggiore omaggio musicale che qualcuno mai dedicherà alla cultura e alle tradizioni finniche: gli Amorphis!

Il trio Rechberger-Holopainen-Koivusaari militava nell’89 nei Violent Solution, una band thrash metal di giovini virgulti di Klaukkala, un paese dei dintorni di Hel(l)sinki. Tomi Koivusaari, ancora sedicenne, lasciò presto i due amici e futuri compagni di gloriose gesta per fondare gli Abhorrence. Immaginiamo che quando a tutti fu chiaro che la strada giusta da percorrere non fosse quella del thrash ma bensì quella del death metal, che Tomi stava iniziando a sperimentare insieme a Mika “Arkki” Arnkil, attuale bassista degli Impaled Nazarene, fu palese a tutti insomma che tre teste erano meglio di due e che si poteva tirare fuori qualcosa di buono. Dalle prime violente e un po’ rozze sperimentazioni, grazie anche all’aiuto dell’amico Timo Tolkki che registrò la primissima demo Disment of Soul, i tre padri fondatori diedero vita a qualche specie di rumore niente male come ad esempio la traccia omonima (che non ritroveremo mai più in nessuna registrazione ed uscita discografica successiva) che è l’unico brano in cui si coglie, molto alla lontana, una nota familiare di ciò che verrà poi. I primi passi della band saranno, pochissimi anni dopo, riassunti nell’EP Privilege of Evil che include, oltre alla title track, anche Excursing from Existence (periodo Disment of Soul) nonché Vulgar Necrolatry (una cover dei già citati Abhorrence di Tomi), Misery Path (questi ultimi dal primo singolo Amorphis del ’93), Black Embrace e Pilgrimage from Darkness, tutte presenti e molto meglio registrate in The Karelian Isthmus (soprattutto l’ultima col titolo più semplice di The Pilgrimage). Perché perdere tanto tempo intorno ad un EP? Prima di tutto perché per un vero fan l’alba della band oggetto di sacra venerazione è quasi più importanti dell’ultima uscita e secondo perché, a mio parere, in Black Embrace (soprattutto nella versione di The Karelian Isthmus) c’è già zippato tutto quello che si dirà fino a Tales from the Thousand Lakes

La parola del fanatico sfegatato non è mai oggettiva, come esserlo d’altronde, ma proviamoci lo stesso. Ciò che manca per giungere all’exploit geniale di Tales from… è una fase intermedia e di passaggio ben rappresentata da The Karelian Isthmus, concept album (scelta stilistica che sarà molto percorsa in seguito) basato sulle gesta belliche dei guerrieri uraloaltaici (quell’istmo fu in effetti teatro di cruente battaglie contro gli svedesi prima e contro i più forti e meglio attrezzati russi/sovietici dopo) e qualche accenno ai Celti. Musicalmente parlando che non sia già stato detto non c’è molto ancora. Tomi è alla voce/chitarra, Esa lead guitars, Jan alla batteria come sempre ma si mette alla prova anche come tastierista (le tastiere saranno il vero cuore pulsante dell’Amorphis sound negli anni a venire) ed infine Olli-Pekka Laine al basso. Abbastanza nello stile del death di quegli anni rimane, in definitiva, un album fondamentale solo per i veri appassionati della grande A. Però prestate solo un attimo di attenzione a Exile of the Sons of Uisliu e poi non mi venite a dire che il sentiero non fosse già segnato.

Il vero momento di svolta, uno quei rari incontri di persone e idee che cambiano la storia (musicale di un gruppo in questo caso), il balzo in avanti, ineguagliato ed unico nel suo genere, forse il miglior album di death/doom mai prodotto prima e dopo (e meno male che volevo rimanere nell’oggettività) è senza ombra di dubbio alcuno Tales from the Thousand Lakes. Ancora si sente quel non so che di grezzo e fatto in casa, nelle chitarre gracchianti e nei growls bassi e cupissimi che viene da chiedersi: ma on stage come farà a riprodurli? I ragazzi danno finalmente prova di saper suonare musica intelligente infatti spuntano fuori i primi inattesi richiami di psichedelia, come nello stacco intermedio di The Castaway di 30’’ di atmosfere soffuse e iperboree che lasciano poi spazio ad un assolo di perfezione allucinante. I cambi di ritmo sono continui ed in questo sta la varietà dell’album, oltre che nella diversità delle citazioni. Per esempio è evidente quella folk come in Into Hiding che sfiora quasi l’orientalismo nei primi passaggi di chitarra fino al palesarsi definitivo del totale riferimento al folklore finnico. Infatti, come tutti sanno, Tales è tratto dal, nonché dedicato interamente al, Kalevala. È in generale importante accennare qualcosa del Kalevala, ossia i vecchi poemi della Carelia dei tempi antichi del popolo finnico, ed è essenziale per poter apprezzare meglio gli Amorphis, fidatevi.  Il medico e letterato Elias Lönnrot vagabondò per un bel pezzo della sua vita in giro per la Carelia parlando coi vecchi e accostandosi ai saggi runoia, “coloro che cantavano i runi”, raccogliendo testimonianze della poesia tradizionale e racconti di quella magia per noi incomprensibile che era la cultura orale. Il Kalevala contiene storie normali, non di re e di spade ma di fattorie, birre che fermentano nelle botti, di Remunen il padre del luppolo, delle fatiche del corteggiamento, del Sampo, magico oggetto dispensatore di felicità e ricchezza, oltre che del mitico eroe Kaleva, forse il gigante che per primo giunse con la sua tribù sul suolo Suomi (da “suo”, palude). Questo libro è tanto importante per i finlandesi da essere diventato oggetto di festa nazionale: il 28 febbraio, giorno della sua pubblicazione nel 1835, è noto come “Giorno del Kalevala”. Come il libro, Tales from… si dispiega in modo assurdo e fantastico, col tono della fiaba – To Fathers Cabin –  più che dell’epica, anche se questa è pur presente musicalmente parlando come in Black Winter Day brano a cui verrà dedicato un omonimo e successivo EP (in quest ultimo a primeggiare sarà piuttosto la suite Moon and Sun).

Mai come prima vengono utilizzate tastiere e moog grazie all’apporto di Kasper Mårtenson, la cui importante presenza si riduce a questo breve periodo (oggi è nei Barren Earth, nome ritroveremo anche più avanti) e si testano i primi utilizzi della voce pulita grazie alla fugace e non memorabile, ma pur sempre degna di menzione, comparsa di Ville Tuomi. Visto che non tutto ciò che luccica è oro non posso esimermi dal muovere una piccola critica alla cover doom/death di Light my Fire dei The Doors, che forse si poteva anche evitare. Per concludere, il capolavoro indimenticabile ed imprescindibile di Tales resta In the Beginning dove è forte la matrice progressive e settantiana ma soprattutto, lasciatemelo dire, l’intro strumentale di pianoforte Thousand Lakes che da sola è capace di introdurci in una dimensione di immaginazione poetica, di indeterminatezza fiabesca ed in quel mondo di epica magia, forte non da ultimo della potenza evocativa delle immagini di copertina.

Lasciamo i canti su Väinämöinen (nato già vecchio), Ilamrinen (forgiatore della volta del cielo) e Lemminkäinen (gran seduttore) nella loro terra brumosa di Kalevala per tornare alle nostre terrene faccenduole di ascoltatori di musica. Ebbene, per molti Tales ha segnato il punto di arrivo ineguagliato della band, per alcuni è invece l’unico lavoro degno di nota. Raramente mi è capitato di imbattermi in persone che non ritenessero Elegy alla stregua di un tradimento. Forse sono gli stessi che pensano che Nighttime Birds siail tradimento di Mandylion o che Projector sia quello di The Gallery/The Mind’s I. Ma si sa che spesso avviene di non essere “capiti”, o per meglio dire apprezzati, a quei grandi gruppi che pongono una pietra miliare in un genere per poi al bivio deviare per un tracciato completamente diverso. Così è secondo me, che considero Elegy una evoluzione di Tales, anni luce superiore a questo ma allo stesso tempo incomparabile data la enorme diversità. Il growling è ancora presente pur dandosi più spazio alle clean vocals – Tomi finirà per cantare sempre di meno dopo l’arrivo di Pasi Koskinen – e ci si allontana con sempre meno circospezione e rispetto dal classico death metal. Il valzer dei tastieristi è già iniziato e questo Kim Rantala, che ci delizia anche di una splendida fisarmonica nella versione acustica di My Kantele, è un genio (e non mi stupisce che dopo si sia buttato sull’elettronica) e si può ritenere forse uno dei migliori che abbia mai ricoperto tale ruolo nel gruppo. Il batterista e fondatore Jan Rechberger si concede una lunga pausa dalle scene. Lo ritroveremo solo nel 2003 con Far from the Sun e, probabilmente è solo un caso, il suo ritorno coincide con un certo riavvicinamento ai temi più classici del folk metal dopo la “sbandata” electro-progressive di Elegy fino a quel momento. Ad ogni modo il suo sostituto Pekka Kasari è uno tosto e bravo e sufficientemente flessibile ed ironico da concedersi persino agli svarioni pseudo-reggae e alle rapide raffiche simil-tecno di Cares.

Come accennato prima, gli Amorphis avevano già tentato la prova del suono orientaleggiante, con quei fugaci inserti di Tales, senza scatenare l’ira dei puristi del Finland pride. In Elegy questo suono è invece prepotente ed è ovunque: l’inizio, nonché lo sviluppo, di Better Unborn è addirittura scandito da riconoscibilissime note di sitar! Che c’entra il sitar, uno strumento indiano, con tutto l’impianto folkloristico su cui abbiamo abbondantemente discettato fino ad ora? Nulla, assolutamente nulla. Eppure, che dire, ci sta alla grande: gli Amorphis sono maturi ed hanno imparato dal movimento progressive il valore della contaminazione musicale. Elegy è anche l’album delle voci pulite si diceva. Ebbene, anche qui, occorre precisare che ciò non è precisamente vero fino in fondo. Semmai occorresse dare una connotazione definitiva ad Elegy direi appunto che si tratta dell’album Prog degli Amorphis. Anche il secondo brano infatti, Against Widows, attacca con un growl potentissimo; The Orphan è uno studio di psichedelica applicata mentre già da On Rich and Poor in poi ritornano le tematiche folk tanto agognate, ma seguendo un path del tutto diverso, vedi Song of the Troubled One e Weeper on the Shore. Ricordiamoci sempre che idealmente ci troviamo ancora nei dintorni di Tuonela, il regno della morte, e di Hiitola, il regno del demonio (per inciso di demonico nel senso classico del termine che siamo soliti attribuire ad esso qui non c’è un bel nulla, semmai parlerei del dáimōn greco). Siamo sempre nel mondo della fiaba i cui protagonisti sono quegli esseri magici capaci di “far parlare” il Kantele, l’ammaliante strumento a 38 corde ricavato dalla mascella di un pesce gigante e dai crini di uno stallone. Che dire della title track se non che è probabilmente il miglior pezzo mai scritto dagli Amorphis (per la precisione proprio da quel genio di Kim Rantala), dal ritornello di chitarre e tastiere assolutamente unico, ascoltato mille e mille volte senza mai stancarmi, e della sovrapposizione di echi e growls che si infrangono l’uno sull’altro. Il brano è un tutt’uno con Relief: una grande suite finlandese. Non credo di star esagerando ma sono ben consapevole che non più di uno speciale si tratti ora ma di una vera e propria apologia. Credo anche che chi ha avuto il gusto e la pazienza di leggere fino a qui probabilmente condivide qualcosa di quello che dico. Ah, per inciso, lo sapevate che la copertina di Elegy è di Kristian Wåhlin, quello dei Diabolique, lo stesso che ha disegnato alcune delle migliori copertine mai viste? Lo splendido periodo di cui si sta parlando si chiude meravigliosamente con l’uscita di un altro EP, My Kantele, che scorre mellifluo seguendo le ondate della sperimentazione: un piccolo gioiellino quasi tutto clean vocals, organetto e sinth dove si gioca con le cover ma si straborda in un inatteso space rock. Levitation, cover Hawkwind, già parla la medesima lingua di Tuonela. (Charles)

La vergine dell’aria, Ilmatar, discende nel mare e, fecondata dal vento e dalle onde, diventa madre delle acque. Un’aquila fa il nido e depone le uova su un ginocchio di Ilmatar. Le uova rotolano dal nido, si rompono e dai frammenti dei gusci si formano la terra, il cielo, il sole, la luna e le nuvole. (Kalevala)

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