Avere vent’anni: ARCH ENEMY: Doomsday Machine
Penso che questa rubrica sia bellissima soprattutto perché riascoltare questi vecchi album ci permette di rivivere i ricordi che abbiamo vissuto in quegli anni. Nel 2005 ero un ragazzino che aveva da poco scoperto la musica del demonio ed ero affamato di qualsiasi cosa le mie mani potessero raggiungere. Erano gli anni dei CD masterizzati e dei torrent scaricati a pacchi. Le mie giovani tasche erano vuote, quindi prendevo qualsiasi cosa mi passasse davanti.
Conobbi gli Arch Enemy in realtà qualche anno più tardi, credo fosse il 2008 o giù di lì, indovinate come? Esattamente: con le cover di Symphony of Destruction e Kill with Power dall’Ep Dead Eyes see no Future. Ero un ragazzino insomma, e gli Arch Enemy, a distanza di vent’anni, si può dire che questo siano: musica da ragazzini. Lo so, sei arrabbiato con me ora, ma seguimi nel discorso.
Ripercorrendo la carriera di Michael Amott, la situazione pare evidente: è l’anima più melodica dei Carcass, con lui arrivano i due album di maggiore successo della band inglese, da cui esce per i vari cazzi con le case discografiche successivi al suddetto picco commerciale. Nel frattempo forma gli Arch Enemy con il fratello e la cosa rimane poco più di un passatempo finché non arriva Angela Gossow. Cosa si diceva a quei tempi quando facevi sentire a qualcuno gli Arch Enemy?
“Lo sai che è una donna che canta???”
“NOOOOO non ci credo, davvero?”
Per moltissimi era la prima volta che si sentiva una donna cantare in growl. Mossa geniale, chissà se cercata o casuale, ma sicuramente riuscita. Da lì in poi anche il suono e il senso di tutto si trasformarono piano piano, arrivando con questo album a una forma quasi definitiva. Le chitarre armonizzate, i coroni potenti, la forma canzone più precisa e lineare, il suono secco e pulito: tutto è ormai pensato per arrivare a un pubblico il più vasto possibile. “Oh, belli i Carcass, ma la figa è meglio, i soldi ancor di più, e le bollette non si pagheranno da sole. Diventiamo un gruppo di ingresso per ragazzini alternativi”. È un ragionamento che può anche aver senso, e il risultato non è per forza brutto, è semplicemente sbagliato.
Anche i Linkin Park erano un gruppo di ingresso per ragazzini – io sono uno di quei ragazzini, tra l’altro – ma loro erano un gruppo sincero, di ragazzetti che avevano qualcosa da dire, avevano un’urgenza, un’anima e, per caso o fortuna, parlavano a milioni di ragazzini che provavano le stesse cose. Qui invece c’è un quasi quarantenne che probabilmente si è stancato di fare fatica e decide, calcola, pensa in funzione del vendere il più possibile. Non ti giudico, Michael, mi va anche bene, perché servono sempre nuove anime e le vie del (nostro) signore sono infinite. Ma poi queste nuove anime devono essere portate a sentirsi Heartwork. Devono avere la voglia di andare indietro agli Slayer fino ai Black Sabbath e nel percorso CAPIRE.
Tu, ragazzino in post adolescenza, lo so che ora mi stai odiando, ma fidati di me. Vai indietro, ascolta, cerca di capire perché questa è musica da ragazzini e quell’altra no. Devi capire quell’ urgenza e provarla, sentirla: è il motore di qualsiasi forma d’arte, e quando manca rimane un corpo vuoto e senza anima, come questo album. Se non lo capisci, probabilmente hai sbagliato schieramento. (Alessandro Colombini)


Bella riflessione. Mi ascolto Heartwork.
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Viva i Carcass.
Abbasso la figa.
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