Il racconto del Frantic Fest 2025
Per gli amanti del metal (e non solo), in Italia il Frantic Fest non dovrebbe più rappresentare una novità o una proposta di nicchia, bensì una realtà consolidata da anni, che vive di una amministrazione virtuosa, uno staff attento ai bisogni dello spettatore e piccole polemicucce tirate fuori dal “Gianprostata” di turno. Per “Gianprostata” si intende quella categoria di metallaro con una visione bidimensionale della scena, idealizzata al 1990 di quando litigava nell’angolo della posta della sua rivista mensile, che ha timore della gente che vive con allegria un concerto (vedasi Trenino Gate) o addirittura si lamenta se bevande e cibo vengano pagati tramite un braccialetto.
Però si sa, spesso queste contestazioni sono meri casus belli di gente che già ha deciso di non presenziare a un evento e cerca solo in maniera postuma una giustificazione per non esserci. Una delle problematiche di rilievo della scena è la cristallizzazione delle abitudini e dei gusti dell’audience, ovvero il rischio di coccolarsi la memoria di quei concerti in stile Stadio Olimpico 2007 con Motörhead, Iron Maiden, Machine Head e compagnia senza rinnovare le emozioni con esperienze recenti o comunque diverse. Perché uno dei vantaggi di rilievo del Frantic è proprio questa commistione tra nuove e vecchie realtà, che ti fa sempre uscire da Francavilla con qualcosa che prima non sapevi.
La tre giorni è stata introdotta, come di consueto, da uno spettacolo preliminare. È stato il turno di GIANCANE, che con il suo cantautorato ha saputo, nell’ultimo decennio, entrare nell’epidermide di diverse realtà della cultura pop (Zerocalcare) e del punk italiano (come Punkreas, Bull Brigade). Il taglio ironicamente esistenzialista dello show è risultato affine anche a un’audience non proprio limitrofa alla musica dell’ex Muro del Canto.
Il primo giorno è invece aperto da DIE SÜNDE e AMALEKIM, due maniere in antitesi di proporre black metal: più blackgaze/depressive i primi, più tradizionali e misteriosi i secondi. Seguono i TODOMAL che, nonostante un dress code così libero da sembrare ci siano tre band diverse sul palco, sono tra il meglio che il doom spagnolo possa offrire nel contemporaneo assieme a Helevorn e Ikarie, anche se la loro impronta accentua lievemente di più la componente progressive.
A quel punto è arrivato il momento di aprire finalmente lo spazio transenna per il palco più grande e offrire ai NECRODEATH il commiato più sentito per questi quarant’anni di carriera, in cui hanno saputo garantire sempre una qualità esecutiva di buon livello. Peso e compagni guidano il pubblico in un excursus partito proprio dagli albori (Into the Macabre e Mater of All Evil) fino al recentissimo catalogo, non disdegnando una stoccata ai cosiddetti “leoni da tastiera”.
Dall’alto palco rispondono al fuoco i REPLICANT con il loro death tecnico ma, allo stesso tempo, primitivo nell’attitudine: tra Gorguts e Demilich. Non sarebbe però Frantic Fest senza una tradizionale quota di ironia, e per questo aspetto capitano a fagiuolo i BRUJERIA, con la loro gimmick di banditi messicani ricercati dalla DEA. Musicalmente la proposta resta tutto sommato divertente, ma pensare che ormai il membro più anziano della gang sia entrato nel 2016 (ben due dei musicisti sono passati a miglior vita di recente) li fa sempre più assomigliare a una gag da federazione NWO di wrestling piuttosto che a una cricca di spietati manigoldi. C’è da segnalare, a proposito di colleghi del bill, l’apparizione di Jeff Walker che con loro ha condiviso chilometri e anche qualche featuring. In generale, l’audience sembra gradire, vista la venue discretamente colma. Inversamente, a giudicare dal numero di presenze ai PYRRHON, è probabile che in molti ne abbiano approfittato per andare a mangiare subito dopo. Ed è un peccato, perché il loro death tecnico dissonante non solo è particolare, ma stava aprendo la porta alla porzione più avantgarde metal del Frantic Fest di quest’anno.
IHSAHN, nella sua carriera ultratrentennale, ha impreziosito soprattutto le discografie di Zyklon-B ed Emperor, ma mai andrebbe sottovalutato il suo percorso solista in tutte le sue sfaccettature: dal progressive al black sinfonico, all’art rock e alla musica orchestrale innestata al pop. Nella sua presenza abruzzese ha deciso di mettere in primo piano l’album omonimo e l’EP Telemark, la parte “sana” di quest’ultimo, ovvero non le trascurabili cover che lo chiudevano. Il set è ambizioso, con un piglio non distante dalle colonne sonore opulente alla Elfman, ma senza mai scadere nel kitsch.
Se parliamo di metal sperimentale, niente può seguire meglio che una cinquantina di minuti degli straordinari SIGH. La loro performance merita la palma di momento migliore della prima giornata del festival o addirittura dell’intera kermesse. La band si presenta come una allegra famigliola in una spensierata vacanza (con tanto di figlie di Mirai in modalità Yin Yang: una visibilmente introversa, l’altra esuberante), ma, appena si accendono le luci, la trasformazione in sorta di show kabuki del metal estremo arriva immediatamente. Al punto che sì, un po’ piange il cuore a vederli “solo” nel tendone (per l’occasione allargato, per più aree d’ombra) del secondo palco, ma così facendo risultando più vicini alla tradizione del teatro popolare nipponico. Hangman’s Hymn, essendo stato ri-registrato di recente, diventa l’atto principale di questa performance, ma quasi metà discografia viene citata con almeno un frammento. A fine esibizione la folla è in delirio per Mirai e i suoi compagni di scena, nonostante sia mancato il famigerato momento della spada fiammeggiante per motivi logistici. Loro si confermano tra gli innovatori del metal degli ultimi decenni, con buona pace del compositore che con umiltà ha sempre cercato di minimizzare le lodi al suo approccio innovativo. È incredibile che una band di questo calibro abbia dovuto attendere il 2025 per avere il proprio esordio in Italia, e ci si augura che i promoter sappiano cogliere l’entusiasmo davvero palpabile che si era diffuso nell’aria. La decina di copie della nuova ristampa in cd Imaginary Sonicscape nei banchetti sono state letteralmente prese d’assalto.
Abitudinari in Italia e dalla proposta comunque accattivante, seguono poi ZEAL & ARDOR, che confermano la Svizzera tra le migliori culle di avantgarde metal sin dagli albori del genere. Riempiono il palco grande di Francavilla come poche band viste in questi anni; la loro strumentazione sembra essere complessa non meno di alcuni loro album. La prova è a mio giudizio sicuramente buona, ma non eccezionale. Una parte è forse dovuta proprio alla difficoltà di tradurre dal vivo dischi così ben articolati; un altro aspetto da non trascurare è che la scaletta si concentra non poco su Greif, quello un po’ meno affascinante dei tre. È comunque una di quelle esperienze sonore caldamente consigliate almeno una volta nella vita.
Prima di spegnere i volumi alle chitarre, arrivano i TENEBRO, cult band di death metal ispirato all’horror nostrano, attivi discograficamente da pochi anni, ma in realtà Il Becchino (il deus ex machina) lavora da molto più tempo a questo ibrido. Non esattamente la ninna nanna migliore per far prendere sonno ai campeggiatori del Frantic!
Per dormire però c’è poco tempo, tra l’attività e il DJ set ogni sera, uno speciale podcast verso le due del pomeriggio, lotterie con ricchi premi dalla Time to Kill Records, lo storico Sarapanda (dove i veri campioni sono sempre quelli che però non partecipano come concorrenti), insomma il tempo passava in un baleno.
Le prime portate del menù del secondo giorno viravano verso l’estremo, lasciando emergere i FERAL FORMS con il loro death fondente puro all’85%, con una percentuale black e dei fill di batteria spesso non banali. I WINTERFYLLETH rispondono con il loro black atmosferico, propagato in quasi una decina di dischi (da cui sottolineerei The Divination of Antiquity) tra la nebbia di Manchester. I DOOMRAISER si sono poi dimostrati efficaci come sempre con il loro heavy doom ventennale, che ci ha portato dischi come Erasing the Remembrance che hanno poco da invidiare a gente come Saint Vitus, Pentagram e Reverend Bizarre. Nicola “Cynar” Rossi, inossidabile, esorta l’audience e sembra custodire ancora l’entusiasmo degli esordi.
Subito dopo, tocca ai PANZERFAUST invadere il palco grande con la loro possenza e il loro ruvido black metal fatto di aridi riff e fango. Lo sguardo truce di Goliath è la perfetta sintesi delle sonorità maligne pervase sul palco. A contraltare queste vibrazioni, l’energia e vitalità degli INSANITY ALERT, che risulteranno essere tra le rivelazioni di questo Frantic: crossover thrash come i primi Suicidal Tendencies, cazzoni come i DRI, gli austriaci hanno imbastito uno show spassoso di canzoni brevi, cartelloni buffi e un paio di cover con classici stravolti (Bohemian Rhapsody, ma anche Run to the Hills) per l’occasione.
Il pubblico, adeguatamente riscaldato, arriva agli ORANGE GOBLIN con la giusta attitudine. Anche loro, purtroppo, sono in giro a salutare l’audience in un sentito tour d’addio. Un altro di quei casi in cui mormori “perché loro e non…?”, ma la domanda è retorica. Ci lasciano spesso i migliori, in questo caso dei puledri da competizione dello stoner, con la classica discografia senza sbavature o un album che si erga particolarmente rispetto ad altri. Stoner massiccio, veloce come Lemmy (a cui dedicano A Racing Renegade) e ricco di assoli dell’estroso Joe Hoare. Ben Ward è un’autentica branda a mo’ di Dave Batista dei vecchi tempi e, tra una canzone e l’altra, ringrazia il pubblico italiano per il sostegno ricevuto in questi tre decenni e dieci album.
Per scrollarsi un po’ di desertica sabbia arriva poi il turno dei tedeschi GROZA, sei pezzi di black atmosferico con buone melodie che non suonano come l’ennesima copia di qualcun altro.
Gli headliner della serata sono i LEPROUS con il loro progressive metal moderno, quello con tante chitarre, svariate tastiere tutte precise, limpide e ineccepibili da Fates Warning contemporanei. Già da subito avverto l’impressione che quel particolare cantato non fosse molto digeribile per i miei gusti. Impressione che si fa certezza quando, dopo un’ora di show e circa seicentoventidue falsettati e acuti, arrivano le note strumentali di The Sky is Red a fine performance e la mia mente elabora un “GALLINACEOOOOOO” come lo urlerebbe dal buon vecchio Richard in una delle sue storiche puntate e, ahimé, è l’aggettivo che meglio descrive ciò che ho percepito.
Mentre diversi spettatori intanto puntano alle macchine al parcheggio (non per rubarle, si intende, ma perché si era fatta una certa), salivano sul palco gli HEXVESSEL, realtà finnica di psichedelia, folk e qualche influenza metal. Il batterista apre la sua cover a libro del telefono per alcune tenere foto all’audience, e nel frattempo il cantante Kvohst, tra un esoterico brano e l’altro, racconta da quanto mancassero dalla nostra terra, citando anche diverse realtà storiche del nostro paese come Monumentum (storica band milanese di doom/goth di inizio anni ’90) e Paul Chain (qui non servono nemmeno le presentazioni). Una di quelle band che scopri per caso, non è detto che andresti al loro prossimo concerto, ma sei comunque contento di aver avuto l’opportunità di approfondirli.
Il terzo giorno mantiene un po’ la struttura dei precedenti: un po’ di estremo praticamente subito (tra cui i death/doomsters INVERNOIR, che si confessano felici di tornare sul palco dopo un po’ di mesi). Non manca la quota ironica con i BRUTAL SPHINCTER, che nel loro pornogrind non campionano suini o strani effetti, ma in compenso sono esperti in fabbricazione di circle pit di vario genere: ne organizzano uno di sole donne, un altro per tipi veramente tosti e così via. Mentre passava questa mezzoretta di calura e saltellate, continuavo a domandarmi la differenza tra il primo e il secondo cantante, ma è una domanda che resterà senza risposta. Rimane senza replica anche il dilemma ironico proposto dai DEVANGELIC che, appena messo piede sul palco, esclamano “dov’è il trenino?” e poi scherzano sui gonfiabili. Sono però sicuro che il loro brutal death sarebbe piaciuto persino ai Marduk.
In mezzo a loro, sul palco principale, sagono i BULL BRIGADE, con l’arduo compito di usare il loro street/pop punk per non far rimpiangere troppo gli Spirit Adrift, inizialmente nel bill ma poi costretti a cancellare l’intero tour dopo aver scoperto la malattia della moglie di Nate Garrett. Ahimé, il dispiacere (doppio) resta bruciante e mando un gigante in bocca al lupo alla famiglia del cantante.
Una sostituzione che invece si è dimostrata persino migliore della situazione di partenza (soprattutto considerando le tempistiche strette) è quella che ha visto congedarsi i Black Flag in fase terminale a favore dei BUZZCOCKS. Sì, in ambo i casi apparentemente ci si trova dinnanzi a un solo membro storico in mezzo a turnisti. La principale differenza è che con la band inglese parliamo di un nucleo rodato in parte da decenni, mentre Greg Ginn stava portando con sé tre ragazzini appena maggiorenni alla loro prima esperienza su un palco, scambiando un tour europeo per School of Rock di Richard Linklater. Ovviamente la morte di Pete Shelley ha sconquassato i Buzzcocks, il suo timbro è difficilmente replicabile ed è sempre stata l’anima della formazione. Steve Diggle si mostra però ben volenteroso a regalare ai presenti una performance divertente e scanzonata in memoria dell’amico.
I superclassici pre-scioglimento 1981 ci sono più o meno tutti, in più una selezione di brani dall’ultimo lavoro Sonics in the Soul che sono effettivamente cantati da Steve e che virano verso un semplice rock and roll. Il pubblico sembra prenderla bene: tra fan della formazione e curiosi che semplicemente temporeggiano in attesa del tritacarne in arrivo, i CARCASS.
La lunga chioma di Jeff Walker ha lasciato spazio a una pettinatura brizzolata a spazzola da divorziato che cerca il colpaccio su Tinder, ma ciò che esce dagli amplificatori è ancora feroce death melodico strabordante con una punta di grind e una scaletta spalmata su tutta la discografia. Alla partenza di Unfit for Human Consumption comincia letteralmente una pioggia di abruzzesi (e non) in stage diving, con la sicurezza a guadagnarsi la sudata pagnotta nell’afferrare le più assurde acrobazie degli spettatori in caduta, manco stessero giocando a Kaboom! con un vecchio Atari. Un’ora di fuoco ruggente, tra qualche medley e appena tre pause contate di qualche secondo.
“Suoneremmo di più, ma ci dicono che dobbiamo andare”, racconta serafico Jeff, e non vorrei essere nei panni dei FORESHADOWING che arrivano subito dopo, ma in realtà anche sì. Considerando che i romani negli anni sono evoluti in una sorta di elegante risposta ai Paradise Lost ed è un vanto che siano nostrani. Presenziare al loro set è un dovere quasi morale, non solo perché ne sia valsa la pena, ma perché suonare dopo simili colossi avrebbe intimorito in parecchi. Risvegliando antichi traumi di quando alle superiori organizzavi le serate combinate con altre band e magari c’era sempre quella più nota della zona che, una volta esibita, si portava via amici/parenti/fidanzate e ti lasciava a stento con una mezza dozzina di volti in sala. Scherzi a parte, i Foreshadowing non si sono persi d’animo, anzi hanno introdotto il set con tre brani del recente album New Wave Order per poi passare a materiale più vecchio, forse più aggressivo, ma comunque coerente nell’amalgama.
Quest’ultima è anche un’affermazione che potremmo estendere a tutto il festival del 2025, che ha integrato realtà più estreme a passaggi più melanconici e introspettivi, formazioni con esperienze multidecennali a giovani promesse. In un mercato concertistico che ogni anno vede morire le sue leggende, i piccoli e medi festival rappresentano sempre più non solo una scelta sostenibile, ma anche l’unica strada percorribile per un certo tipo di intrattenimento sonoro, che tra un tot di anni non potrà più permettersi quelle pedine che hanno permesso loro di alzare numeri e cifre da capogiro. Dinnanzi a queste previsioni, il Frantic Fest risulta essere uno dei migliori casi-studio da quasi un decennio. (Federico Francesco Falco)















