Dove osano i condor: CAPILLA ARDIENTE – Where Gods Live and Men Die

Una curiosità che ho è come faccia Felipe Kuzbach Plaza a suonare con più band che sono attive e manco vicine, anzi, lontanissime. Dagli Scald, persi nella taiga russa, agli australiani Destroyer 666 che Metal Archives dà però ora residenti in UK. Dai suoi Procession, cileni come lui e come lui trapiantati in Svezia, ai Capilla Ardiente, il cui grosso della truppa comunque mi pare sia restato sulle Ande. Ok, ci sono cose più interessanti che chiedersi se un cantante metal underground dorme due notti di seguito nello stesso continente; per esempio ci si potrebbe interessare all’ascolto di Where Gods Live and Men Die, che della camera ardente cilena è l’ultima emanazione. Non un nome celebre come almeno i primi due menzionati prima (Scald e Destroyer 666), quindi circoscriviamo il perimetro, che poi di fatto è lo stesso di Procession, Scald stessi e Solstice (ah, già, perché a un certo punto cantava pure là): epic doom. Punto. Quella musica maestosa e meravigliosa che nasce dai Candlemass (e quindi da Rainbow e Black Sabbath) e che li ibrida non moltissimo, a volte più coi Manowar, a volte coi Bathory, ma l’epicentro è quello. E i Capilla Ardiente non se ne allontanano granché. Disco gagliardo, detto subito, tempi non sempre lenti o lentissimi, armonie di chitarre ammalianti, per alcuni tratti, e generale atmosfera di grandiosità e mistero. Si sposa bene col tema del disco.

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Che a giudicare pure dal titolo e dalla copertina deve essere epico assai e viene facile cominciare a divagare, fantasticando di cime andine dove solo qualche eroe o incosciente, in passato, sotto regni precolombiani grandiosi e sanguinari, s’è avventurato perdendo la vita o per lo meno la ragione. Seghe mentali, insomma. Più concretamente ci si può far guidare dalle linee vocali del lungocrinito Plaza. A proposito, quando c’era da parlare degli Scald s’è preso una bella dose di critiche nei commenti qua e su faccialibro. Onestamente, non li ho capiti più di tanto, mi parevano ingenerosi, specie visto che Agyl sta sottoterra da un pezzo e nessuno (rimarco: nessuno) canta come lui. Comunque, cari detrattori, immagino possiate essere più indulgenti con Where Gods Live and Men Die, che non ha mica tutto quel peso alle spalle. A me piace, il disco intendo. Una quarantina di minuti, quattro pezzi, la media la sapete fare benissimo da soli. Inizio formidabile, con Envenomed e la sua lussuria austera. Ma ovviamente non è un disco da trarne singoli, questo qui. Già è dura separarne le canzoni. Più che canzoni sono quattro tappe di una scalata, una sfida. Un viaggio pericoloso dove solo i condor arrivano. Consigliato, dai. (Lorenzo Centini)

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