Quattro donne in nero: COLTAINE, IRESS, KARITI e COLD IN BERLIN
Non è che mi sia del tutto chiara la cifra dei COLTAINE. Forse li si potrebbe definire post-sludge-doom-metal? Sì, ed aggiungiamoci un suffisso core, o meglio ancora gaze, così da far venire un colpo a Ciccio che cerca di ricondurci sempre ai classici generi consolidati (si chiama TAG MANAGING, ndCiccio). Però il punto è che col disco di quest’anno, intitolato Forgotten Ways, i quattro tedeschi sembrano fregarsene delle caselle e definizioni. Iniziare il disco con un’invocazione della Morte strillata in modalità post-hardcore e in lingua russa? Niente di meglio. Proseguire con dei minuti di ambient suggestivo di soli sintetizzatori? Mi sembra giusto. Salmodiare poi all’orientale con gli strumenti che ricominciano a suonare rock nonostante si sia in territori quasi alla Dead Can Dance? Fantastico. No, però, non scherzo. Se all’inizio l’eterogeneità mi suonava indigesta, a suon di ascolti si è rivelata la forza di questo gruppo qui, capitanato da una fascinosa donna vestita di nero, Julia Frasch, che potrebbe starci come una versione rigorosamente algida di quello che Sara rappresenta nell’economia dei nostrani Messa. Ah già, perché poi le due band sono già andate in tour insieme ed è così che ne avevo notato il nome. Solo che mi sono messo ad ascoltarli per bene solo ora, con questo album qui, e non già con le uscite precedenti. Comunque, Forgotten Ways vale diversi ascolti, necessari per districarsi tra i suoi molteplici aspetti e cambiamenti non scontati né prevedibili. Per dire, per incontrare vestigia di doom più canonico (magari persino death doom), potreste dover attraversare prima diversi paesaggi lunari e desolati. Ma ne vale la pena. Non un ascolto facile, dicevo. Ma i quattro teutoni non si adagiano col pilota automatico post-metal/post-qualsiasi cosa. I generi sono linguaggi. I Coltaine coi linguaggi giocano, ma hanno qualcosa da dire. Da apprezzare subito e tenere d’occhio per il futuro.
L’aver detto, poco tempo fa, tra le risposte ai commenti di un mio pezzo precedente, che Sleep Now, In Reverse degli IRESS non mi avesse fatto impazzire, mi ha fatto guadagnare qualche canzonatura per la mia città di origine, non certo nota per la delicatezza di carattere di chi vi è cresciuto. A parte gli scherzi (scherzi?), la questione del doomgaze ancora non l’ho capita del tutto. Voglio dire, doom per davvero non mi sento dire che lo sia, ma un post-rock più fragoroso. Praticamente significa prendere i Mazzy Star e suonarli con le chitarre un po’ più pesanti (non troppo) e le batterie quadrate. Che occhio, non è affatto una cattiva idea, non mi trova affatto contrario. E in realtà, vi dico, sarà che son cominciate le brume quassù in Padania, ma ‘sto disco inizia ora a prendermi.

Insomma, gli Iress sono californiani e mi viene da dire che non potrebbe essere altrimenti. La gentilezza malinconica è prevalentemente quella di Michelle Malley, cantante chitarrista di nero vestita. Sussurra molto, per cui non so quanti altri lettori di Metal Skunk possano trovare interessante una proposta così. Ma il disco, nei limiti di stile che si impongono i quattro, è valido, in realtà. Sussurri senza troppi sussulti, anche se un brano come Lovely (Forget Me Not), in cui i nostri si muovono tra Cure e certi Smashing Pumpkins, potrebbe valere per far convincere, che so, la vostra morosa che un animo sensibile ce lo avete pure voi, anche se venute dal basso Lazio. Meglio ancora, dopo, The Remains, che gioca la carta della malìa sontuosa ma che lascia intuire che i tre musicisti, volessero, potrebbero fare più casino. Chissà che strada prenderanno mai, in futuro. Per ora vi bastino, se vi garbano, dieci brani omogenei di mestizia autunnale e femminea.
Ancora un’invocazione in lingua russa all’inizio di un disco, quello di KARITI, che però è russa, anche se stabilmente in Italia. Cantautrice in abbigliamento nero, anche lei tra l’altro l’avevo attenzionata perché nello stesso bill dello stesso tour, quello con Messa e Coltaine. Il tour delle tre donne in nero. La differenza grossa la fa che lei sta in solitaria, tra dark folk, dark ambient, drone e ghost blues. Più simile ancora allora come proposta a quella delle cantautrice gotiche contemporanee, come Marissa Nadler o A.A. Williams. Disco quindi notturno, questo Dheghom, tra arpeggi di chitarra impressionisti e tastiere misurate. Assenti le percussioni, più o meno del tutto. Voci che a volte si stratificano, come nell’ospitata di Dorthia Cottrell in Vilomah.

Affascinante una ballata per piano e violino come Reckoning, tra vecchio West e vecchia Europa. Come quel neofolk che non disprezza rifarsi al compianto Dark Mark. La cifra è quella lì, in questo caso qui, e quindi chi è in cerca di storie folk e fantasmi e paesaggi spettrali con la cantautrice russa ha di che placare la propria sete di mestizia. Si muove prevalentemente in lingua inglese, ma spesso utilizza la propria lingua madre, forse quando servono evocazioni più folk, più veraci, forse più spaventose. Fascino ne ha, come cantautrice. Io personalmente mi perdo un po’ dove percussioni, scarti vocali e suoni differenti non mi guidano nell’orientamento.
Non un album nuovo, ma ben due Ep portano sul piatto quest’anno i londinesi COLD IN BERLIN. Il primo, The Body is the Wound, è di gennaio e contiene quattro canzoni nuove, registrate in studio, di doom rock gotico e parecchio commisto con post punk e deathrock glaciali. Non solo. Dream One, ad esempio, in apertura, gioca col linguaggio di certa elettronica gotica alla maniera della regina nera Chelsea Wolfe. Tanto che mi fa tornare in mente quella mia fissa di cercare band che riescano a mischiare doom e trip-hop in maniera efficace, anche se paiono apparentemente agli antipodi. Ai Cold in Berlin riuscirebbe, credo, ma non solo questo. Nell’ultimo brano della selezione, Found Out, la cantante Maya Berlin, in completo nero, pare proprio un’incarnazione della cara vecchia strega Souxsie, alle prese ancora una volta con un brano rock gagliardo. Il migliore dei quattro, anche se tutti e quattro molto avvincenti.

Ma, non paghi, a ottobre la New Heavy Sounds ha rilasciato un altro Ep, stavolta dal vivo, intitolato Live in Warsaw. E cosa c’è come riferimento più glaciale e new wave di Varsavia? Dal vivo due brani di The Body is the Wound confermano il valore. In apertura, When Did You See Her Last? ha l’energia che serviva nei ’90 e primi ’00 ad un buon singolo di rock alternativo per farsi valere nella rotazione di Mtv. Non è una cosa brutta, quella che ho detto, in altri tempi i Cold In Berlin potevano forse provare la strada per un qualche successo in una propria nicchia. Found Out pure funzioni bene su palco, il resto sono ripescaggi dagli album precedenti, l’up-tempo di Total Fear e la cupa palude blues di Sacred Ground. Uscita interlocutoria, ma valida per approcciare ai Cold in Berlin, se pure voi prima non li conoscevate mica. (Lorenzo Centini)
