Copiare e incollare: ANGELUS APATRIDA – Aftermath

Aftermath porta avanti lo stesso concept grafico avviato con l’omonimo album di due anni fa, con quel simbolo anarchico che includeva le iniziali del nome della band spagnola. Ancor prima che alludiate al chi cazzo se ne frega, aggiungo che l’album è di uno spessore certamente maggiore rispetto al suo predecessore.

Lo criticai perché gli Angelus Apatrida avevano tutto per sfondare, ma mancavano di originalità, creatività, spunti. La personalità non risiede nella tecnica, e loro, thrasher di Albacete, erano preparatissimi sin dalle prime uscite e rischiavano di non aver più niente da dire già alla quarta o quinta. Con Cabaret de la Guillottine si erano brillantemente giocati la carta della melodia. Con l’omonimo quella del downtuning e dell’alzare muro alla maniera dei gruppi anni Novanta, senza con ciò rinunciare a quella velocità che, a quei tempi, non esisteva più. Parliamoci chiaro: Aftermath non colma affatto queste lacune. La terza traccia Snob ha per caratteristiche il cameo di Jamey Jasta degli Hatebreed, un ritornello uguale ai Testament e una parte rappata che ricorda Corey Taylor quando era pienamente nei suoi cenci. Ma è una bella canzone. Se l’album omonimo era fatto di magnifici riff scippati alla creme de la creme del thrash metal mondiale, Aftermath almeno ha le canzoni dalla sua parte.

Farà molto discutere Cold, non perché si chiama come la mia preferita degli At the Gates ma perché è un ibrido cinquanta e cinquanta fra thrash metal e il singoletto alternative metal dei primi Duemila. Sinceramente, e al netto del suo stucchevole e facilmente memorizzabile ritornello, è carina pure lei, e i Machine Head di Catharsis avrebbero pagato per poterla avere. Sempre a proposito dei Machine Head, il finale in fade off un po’ li ricorda.

L’album è zeppo di collaborazioni, come se dovessero dei soldi a un sacco di gente e avessero individuato una papabile soluzione al misfatto. Pablo Garcia dei Warcry, chiaramente spagnoli pure loro, è sul pezzo seguente, una bordata di power/speed dal titolo Fire Eyes che a due terzi della durata – dopo strofe di inaudita aggressività alla Phil Anselmo – si concede un break ai limiti del nu metal. La modernità è un fattore ricorrente tanto quanto lo era stata la melodia due pubblicazioni or sono, è decisamente la firma di Aftermath. Rats ci presenta il primo plagio, ai danni dello stesso Phil Anselmo: si attinge da Heresy ed è un peccato, perché anche qua ci sarebbe un gran ritornello. Sembra si sia tentato in ogni modo di puntare sui refrain e che si sia in qualche modo dimostrato di saperli costruire: è la forma, certe volte, a impedire una riuscita al cento per cento.

To Whom it May Concern attacca con gli stessi effetti di Welcome Home (Sanitarium)il virus pare ora in preda a una totale recrudescenza, e ogni controllo è all’apparenza perduto – poi diventa una roba qualsiasi dei Kreator moderni a un più elevato tasso tecnico (Mille Petrozza che risuona quei riff a quelle velocità e con quella precisione perderebbe le dita, blu e in cancrena, entro quarantotto ore, più o meno come accade agli alpinisti quando si sperdono di notte sul Lhotse a meno quaranta).

La restante porzione del disco è meno interessante dal punto di vista della cronaca e delle novità. Gernika è anch’essa velocissima, e in seguito troviamo i cameo di Sho-Hai (se sapete di chi si tratta potete comunicarmelo su Messenger o Instagram) e di Todd LaTorre dei Queensrÿche. L’ultimo – chiamiamolo così – sentore tira in ballo niente meno che Pull me Under dei Dream Theater. Complessivamente l’album più fresco e meglio riuscito degli Angelus Apatrida che potessi aspettarmi: non centrato quanto Cabaret de la Guillottine, talvolta un po’ troppo ruffiano, ma comunque di una certa risolutezza e spessore. Il prossimo traguardo sarebbe produrre l’album in maniera un po’ meno artificiosa, non andare in overthinking coi classici del passato, e, come dicono nel finale de La Cosa, vedere che succede. (Marco Belardi)

3 commenti

  • Avatar di weareblind

    Meglio dello scialbo precedente, molto peggio di Cabaret.
    I tanti ospiti creano disomogeneità, e alcuni sono proprio fastidiosi.

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  • Avatar di Fanta

    Tecnicamente disco sopra, ma tanto sopra la media. Mi si usa persino il ride cymbal in modo devastante, laddove nel genere di riferimento era pressoché scomparso.
    Bella prova.
    Il problema sono le linee vocali e lo stile nel cantato. Ci sono lacune che li separano dal fare il botto definitivo, in tal senso.Tutte ste cazzo di ospitate alla voci denotano una sorta di insicurezza di base di Guillermo Izquierdo. Per me non si sente pienamente un cantante, mi ci gioco una palla. Accanna la chitarra Gugliè e concentrati sul trovare uno stile personale da singer. O al limite il contrario. Prendete uno con i contro-cazzi dietro al microfono.
    Ci siete maledettamente vicini però. E in generale stiamo parlando di un disco bello secondo me.

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  • Avatar di Valerio

    Comunque Sho-Hai pare sia un rapper si Saragozza. Come si intitola il brano in cui è ospite? ‘Sube El Volumen’? Perché l’idea non è proprio fresca fresca, eh.

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