CRYPTOPSY – As Gomorrah Burns

I Cryptopsy hanno fatto un altro disco furbo come l’omonimo che seguì The Unspoken King. Ricordo ancora quel giorno, la sua uscita nei negozi. In quegli anni non ne volevo più sapere dell’andazzo generale del metal, e mi limitavo al generale ripassone di titoli storici a me congeniali. Poteva qualcosa del 2008 valere uno Spiritual Healing? Di sicuro no.

Però sono sicuro d’avere ascoltato qualcosa nel 2008 (oltre a Death Magnetic, per motivi ancora una volta affettivi), e cioè The Unspoken King. Sulle prime pensai: per fortuna hanno cambiato qualcosa, era l’ora. Dieci minuti più tardi ero in preda ai conati di vomito e speravo con tutto me stesso che i Cryptopsy si sciogliessero di lì a poco: in qualunque maniera, consensuale, processuale, perfino nell’acido. Non volevo più saperne dei Cryptopsy dopo The Unspoken King.

Però, vedete, la soluzione che hanno adottato i Cryptopsy per reagire a quell’aberrante fallimento è stato il sistematico affidarsi ai dischi furbi. E alla lunga neanche così va bene.

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Qui non c’è affatto Lord Worm, e non c’è neppure Jon Levasseur se è per quello, e Jon Levasseur nel disco furbo nel 2012 era pure tornato nei ranghi. Eppure As Gomorrah Burns – che BNR Metal Pages riporta incredibilmente come As Gomorrow Burns – è costruito in modo da farvi sentire a casa vostra a partire dall’immagine di copertina. Che è del nostro Paolo Girardi – bella, identificabile in Girardi dal primo centimetro di pennellate all’ultimo, ma non una delle sue migliori – e riprende il diavolone dalla lunga coda di Whisper Supremacy, stavolta non su sfondo buio e bluastro, ma su uno scenario di deprimente devastazione.

Flo Mounier si prende tutto lo spazio per sé, ma, in assenza di una concreta produzione anni Novanta, paga lo stesso scotto pagato da Jordison al passaggio dall’omonimo ad Iowa. Ne risentono le dinamiche, sebbene le partiture di batteria siano come da consuetudine un’opera d’arte. Se i Cryptopsy davvero vogliono farci sentire a casa e fare i furbi, è dallo sporcare nuovamente i suoni che debbono ripartire: e questo la Nuclear Blast non glielo farà mai fare. Me lo immagino Flo Mounier che entra deciso in un loro ufficio e suggerisce di ritornare furbescamente al suono di None so Vile, firmato, per assurdo, dallo stesso Pierre Remillard che a quei tempi lavorava con gli Anvil. M’immagino gli impiegati Nuclear Blast che in risposta si mettono a ridere, tirargli addosso manciate di merda di gatto presa da una lettiera e ad accoppiarsi fra di loro sulle scrivanie, sempre ridendo isterici.

Non è una soluzione adottabile, in primis per la salute e la sicurezza di Flo Munier.

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Flo Mounier respinge gli escrementi di gatto con le sue robuste Vic Firth 5A

Il nuovo Cryptopsy è schizoide come da tradizione della casa e ha questi brani i cui riff inseguono nervosamente il precedente senza alcuna soluzione di sosta. Alcuni passaggi sono maledettamente atmosferici, altri dissonanti, e questa scelta già l’avevo intravista nei due EP The Book of Suffering di qualche annetto fa. Non saprei dire se codeste opzioni si integrino al meglio nel death metal dei Cryptopsy oppure no. Già da Whisper Supremacy la loro musica era descrivibile come cervellotica e particolarmente impegnativa, per cui, probabilmente, può anche starci. Il meglio lo si trova al centro della scaletta, in particolar modo Ender e The Righteous Lost seguite a ruota dalla conclusiva Praise the Filth. Ogni pezzo vive di momenti fortunati. Si salta sulla poltrona, un attimo dopo ci si sopisce un po’ e si cessa di esaltarsi. È un po’ la lacuna del death metal imperversante da metà anni Novanta in poi: aveva i riff, aveva gli attributi, ma era venuta meno la capacità di scrivere il pezzone che rimane negli annali, e qui una Cold Hate, Warm Blood non c’è. Scarsi i rimandi al lontano passato del death metal, e in merito mi sovviene solo Praise the Filth, che, da metà in poi, si fa una bella ripassata di tupatupa e altre generalità tipiche dei primissimi Novanta e non oltre. Anche Godless Deceiver ha questo genere di passaggi, categoricamente posizionati a metà brano, come fosse tutto un po’ programmato pur di spezzare un’incombente monotonia. Il singolo In Abeyance si propone come protagonista assoluto della scaletta; a 1:40 è goduria totale ma non si centra completamente l’obiettivo.

Buon album ma manca una direzione, una precisa e chiara volontà di suonare qualcosa che non sia né qualcosa di più rivolto ai loro primi dischi, né quell’accrocchio un po’ dissonante, un po’ atmosferico, che altri hanno eseguito meglio di loro nell’ultimo decennio e che ora inizia a sapere di stantio. (Marco Belardi)

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