Bótte vecchia fa buon doom: SMITH & SWANSON – st

Il doom, quello vecchio, che sa di bótte e cripta, è spesso faccenda di ottimo e sapiente artigianato. Questa stronzata mi era già venuta in mente parlando degli Sleepwulf, ma calza ancora meglio al caso di questo Smith & Swanson, dietro cui si cela la manifattura sapiente di Tim Schmidt e Phil Swanson. Il primo, chitarrista germanico, l’abbiamo già incontrato l’anno scorso nei temibili Thronehammer e pare parecchio attivo da anni nella scena doom del suo Paese. Swanson, statunitense, ha un curriculum ancora più lungo, ma io personalmente lo avevo solo incontrato nei Briton Rites (tra l’altro fighi, assai). Però occhio, era dietro al microfono di una delle primissime incarnazioni dei nostri beniamini Atlantean Kodex, per cui il legame con l’Alemagna sembra cosa vecchia. Parliamo di underground e di musicisti veri e un po’ attempati, che di sicuro non hanno l’ansia di vendere nulla. Va da sé, quindi, che ci troviamo fra le mani (si fa per dire) un disco che nasce minore, ma anche libero da aspettative, compromessi, ambizioni, furberie. Solo doom, e solo di quello classico. Una pacchia, insomma.
L’attacco, con No Colors, è da manuale, un riff circolare che sa di legno e di Wino. Il cantato di Swanson appartiene alla scuola più acida, acuta, meno stentorea. Voce nasale, un po’ come quella della buonanima di Terry Jones. Niente suggestioni ancestrali o mitiche, però. Doom asciutto, basilare, verace. Così anche il mid-tempo di Like Glass, subito dopo. Poi in realtà entrambi i brani abbandonano verso la metà il passo fatalista e indolente con cui si avviano per sprofondare in meandri millenaristici più vorticosi.
Un inizio di livello. E pezzi in vena ce ne saranno ancora, giusto qualche piccolo passaggio meno riuscito. La voce nel finale di Song for Harry non è proprio memorabile, ma poi la vena sixties del ritornello di Worms chiude bene la faccenda. Una cosa che non stupisce affatto è la discendenza dell’ossatura di diversi brani dai Black Sabbath epoca Dio. Poi certe vette ok, non le raggiungono, ma io di dischi così, nati minori ma fieri e coinvolgenti, non ne ho abbastanza. Voi sì? E se la metafora iniziale, quella dell’artigianato, non vi ha convinti (e a ragione), sentite questa qui, in linea con la tradizione enogastronomia del blog: il doom di Smith & Swanson è come quella bottiglia di campagna che a tavola spazza via diverse di quelle “riserva di…” o “chateau de…” che i sommelier della domenica cercheranno di propinarvi. (Lorenzo Centini)