Quando il death metal commuove: SOLSTICE – Casting the Die

In molti abbattono lo stress quotidiano comodi sul divano, godendosi, non si sa come, una commedia romantica con Hugh Grant, la Roberts e altri attori il cui scopo in carriera è stato principalmente quello di sedare milioni di persone che timbrano il cartellino, fanno la pausa pranzo, tornano a casa congedando con educazione ed isteria la baby sitter, e cose così. Alle 21.30, causa un jet lag di un’ora imposto dal quiz serale con Flavio Insinna, c’è il film che li farà piangere, scaricare emozionalmente e che li preparerà alla intensa – ed uguale a tutte le altre – giornata successiva. Sembra un film dell’orrore, descritto così, ma è semplicemente la vita. Io ho rischiato di commuovermi con i Solstice, che sembrano un film dell’orrore e non hanno la minima intenzione di fingersi altro. Una vera medicina, niente placebo e soprattutto niente sceneggiature di merda confezionate per appagarvi.

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Lo stesso personaggio di Alex Marquez, fuoriclasse della MotoGP o se preferiamo dei Malevolent Creation all’epoca di Retribution e Stillborn, sembra caratterizzato appositamente per un film: casini con la droga, casini con la legge, lo stesso Jason Blachowicz gli dedica Cuidate del Traidor con i Divine Empire (grazie Ciccio per la segnalazione) dopo che il batterista gli ha svaligiato casa. Tipico, no? Tu rientri con i sacchetti della spesa e un batterista con cui hai suonato ti stava svaligiando casa. Non sembra possibile che la sua carriera di musicista potesse procedere oltre e infatti i Solstice, i miei Solstice preferiti, poiché in molti penseranno immediatamente a quelli di Lamentations, procedono a singhiozzo da sempre.

Sarò franco, l’unico loro album che ricordo come se l’avessi messo su stamani è il primo del 1992. Né Pray degli anni Novanta, né To Dust uscito oltre dieci anni fa hanno lasciato in me il benché minimo segno. Pray a dire il vero era un disco davvero belloccio, ma per spiegarvi brevemente la mancata breccia nel mio cuore farò un ulteriore parallelismo con gli autori di The Ten Commandments. L’evoluzione di questi ultimi sino alla forma di Eternal e In Cold Blood si spianò su un catalogo fatto da ben cinque titoli. Fra Solstice e Pray, complice un primo scoppio della line-up e il cambio d’etichetta, ci furono tre soli anni e un passaggio stilistico netto, radicale. Che non accettai. Mi mancavano i Solstice del 1992, e, per quanto buoni fossero quelli “pensati” immediatamente a ridosso, non mi sarei mai rivisto in Pray. L’odierno Casting The Die vale quasi quanto il primo e omonimo album, con la differenza che il precedente e storico uscì in un’epopea ricca sfondata di capolavori immortali del genere death metal, e che oggi, poter ritrovare e riabbracciare un mood simile è una cosa meravigliosa e che fa quasi commuovere. Aggiungete la storia di Marquez e il gioco è fatto: succhiaglielo pure ai Solstice, Hugh Grant.

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Casting the Die è grosso modo strutturato così: un terzo di death metal vecchia scuola, un terzo Sadus con un’accentuata componente techno-thrash che spicca negli arrangiamenti e nell’impostazione sonora, così asciutta oltre che tutta spostata sulla sezione ritmica, ed un terzo di hardcore. A spingere su questa leva è specialmente il nuovo cantante, Ryan Taylor. L’uomo al microfono si adatta splendidamente al contesto, ma, di tanto in tanto, gli scappa fuori qualche cadenza nettamente debitrice nei riguardi di Phil Anselmo: non sa trattenere certi aspetti e probabilmente è stato scelto anche per questo. Altrimenti sarebbe equivalso ai tizi messi nei Terrorizer a sostituire Oscar Garcia: il nulla assoluto. È da lì che viene Taylor, dall’hardcore mischiato alle frange più violente del metal, e se la cava alla perfezione per quanto la musica dei Solstice sia oggi stratificata e rischiosa da interpretare vocalmente. Piccola nota a margine: Ryan Taylor è anche il nuovo cantante dei Malevolent Creation e va a sostituire quel Lee Wollenschlaeger che non è durato un cazzo e che non ho idea di quale fine abbia fatto. Ma conoscendo Phil Fasciana controllerei giusto qualche bagagliaio nei paraggi di casa sua, Aldo Moro insegna.

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L’album tiene botta sempre tranne in un paio di tracce un po’ anonime poste nel mezzo: nove episodi anziché undici e avrei potuto sproloquiare sulla sua perfezione. Ma non m’interessa la perfezione, mi interessa che qua dentro si possano individuare canzoni, ottimi suoni e personalità. Una peculiarità, quest’ultima, che i matti non perderanno mai per strada, facendone semmai un vanto. Coloro che hanno permesso che il metal si spersonalizzasse pur di poter essere sdoganato a chiunque, neanche più sanno cosa sia la personalità: è l’ossigeno degli artisti e rinunciarvi risulterà suicida tanto quanto inventarsela di sana pianta laddove latente o del tutto mancante.

Al suo termine troviamo Scratch, non la migliore canzone di Casting the Die ma un piacevole cameo da parte di Tony Choy e Rob Barrett, il primo un simbolo assoluto del death metal tecnico, il secondo un vecchio collega sia nei Malevolent Creation di Retribution, sia nel debutto dei Solstice. Peccato per gli innumerevoli assoli di basso di cui Casting the Die è disseminato: infondono anch’essi personalità, un tratto da ricordare, ma essendoci di mezzo l’hardcore fanno un po’ a testate con quest’ultimo. Così come l’inizio di Transparent si fonda su linee vocali scippate pari pari da Jihad degli Slayer. Per il resto, un autentico viaggio: ritmiche thrash, pezzi incredibili come The Altruist o l’atipica Who Bleeds Whom posta lì quasi a voler abbassare – anche per un solo momento – un muro pressoché invalicabile.

Bentornati Solstice, ed ora, Marquez, bisognerà tener botta a tutto questo. E sarà quella la parte più dura. (Marco Belardi)

2 commenti

  • Sti tizi li ho completamente rimossi, l’unico ricordo che ne ho è quello di una delle tante formazioni dell’onda inflazionista del thrash/death, nata e morta nel primo lustro degli anni ’90.
    A parte questo, Belardi quando scrivi che “sembra un film dell’orrore, descritto così, ma è semplicemente la vita”, alla vita di chi ti riferisci? Perchè quella che descrivi mi pare la vita di una classe media che non esiste più da quasi 30 anni e che dopo un anno e mezzo di Covid sembra appartenere a un’altra era geologica.

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