Images, words & beyond: DREAM THEATER @Mediolanum Forum, Assago 04.02.2016

PrintNon andavo ad un concerto dei Dream Theater da una quindicina d’anni, e più precisamente dal tour del disco sulla classificazione delle flatulenze, Six Degrees of Inner Turbulence, i cui pareri in proposito sono alternativamente una gran boiata o una gran figata senza alcuna via di mezzo. Lì era il Palaghiaccio di Marino, alle porte di Roma, con di spalla le all’epoca nuove promesse del prog metal, i Pain of Salvation freschi di pubblicazione di Remedy Lane. Questa volta invece Petrucci e compari suonano da soli, quasi tre ore di concerto in occasione del venticinquennale di Images & Words, pressoché unanimemente considerato il loro capolavoro. Non c’è più Mike Portnoy, scomparso in un vortice spaziotemporale di gruppi di merda che, per fortuna, non ha sentito nessuno e dichiarazioni bislacche che puntualmente finiscono su Blabbermouth e quindi, purtroppo, hanno letto tutti. Non ci sono neanche più i Pain of Salvation, che dopo Be ho perso completamente di vista. Per il resto direi che ci siamo tutti, e il tempo sembra non essere passato se non fosse per la tremenda combo tricologica caschetto/tintura nera di James LaBrie, la cui voce però continua a reggere discretamente.

L’impostazione della scaletta è strana. La prima parte è composta da canzoni tratte dai dischi del dopo-duemila, con l’eccezione di Hell’s Kitchen, da Falling into Infinity. Non conosco quasi nulla, o perché si tratta di album che non ho mai sentito oppure perché sono cose che ho ascoltato all’uscita e che ho poi dimenticato. L’unica eccezione, a parte la suddetta Hell’s Kitchen, è As I Am, l’opener di Train of Thoughts, disco minore che a me piacque tantissimo; fu il frutto di un loro periodo in cui erano evidentemente in fissa coi Metallica, tanto da essere pieno di riferimenti e scoperti omaggi alla band di Frisco; qui parte proprio un medley con Enter Sandman, giusto per mettere le cose in chiaro. Nessun estratto da Awake, comunque, per qualche imperscrutabile motivo. Io a un certo punto mi guardo intorno per osservare la fauna e mi fa specie che molto probabilmente gran parte della gente intorno a me suoni uno strumento, peraltro con un approccio molto particolare, e quindi magari guarda il concerto con una prospettiva molto diversa dalla mia; e mi chiedo se la band suoni solo per quelli come loro (in cui di sicuro si identificano) oppure anche per i poveri stronzi come noi a cui piacciono pure gli Alestorm.
Questi ragionamenti mi fanno sopravvivere all’assolo di basso con annessa cover di Jaco Pastorius fino alla fine della prima parte dello spettacolo, seguita da una pausa di una ventina di minuti durante la quale si accendono anche le luci, come l’intervallo al cinema. Credo sia una scelta molto intelligente per un gruppo alle soglie del trentennio di attività che fa concerti di tre ore; suonando quello che suona, peraltro. 

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[foto di Paolo Bianco]

Quando le luci si spengono il palazzetto esplode. Siamo nell’era di setlist.fm, del resto, e si sa già cosa accadrà: Images & Words, per intero. Un’intro pseudoradiofonica per contestualizzare l’album fa sentire spezzoni di ciò che passava in quegli anni, e vi risparmio gli ovvi ragionamenti rassegnati sul fatto che all’epoca in radio c’era Would? degli Alice in Chains ed Even Flow dei Pearl Jam, mentre adesso vabbè. C’è anche poco tempo per rammaricarsi in realtà, perché parte Pull Me Under e la terra trema. Tra assoli, introduzioni strumentali e gigioneggiamenti vari riproducono tutto l’album. La paura che ne saltassero qualche pezzo mi era venuta perché, rispetto alle precedenti date, qui non hanno suonato The Spirit Carries On e A Life Left Behind, molto probabilmente per le non ottimali condizioni vocali di LaBrie. Invece no, lo fanno tutto. C’è bisogno che vi parli di Images & Words? Immagino che lo conosciate tutti, anche su un blog come questo in cui di solito si parla di musica per drogati. Per quanto si possa non amare i Dream Theater, o  questo tipo di prog metal in generale, un disco del genere è ormai entrato a pieno diritto nell’Olimpo dei classici, anche solo per il fatto che non mi pare che dal 1992 ad oggi sia successo altro di così importante nel prog metal, parlando da un duplice punto di vista sia qualitativo che di impatto sulla scena.

La terza parte del concerto è A Change of Seasons, anche lei tutta per intero. Sapevo che l’avrebbero fatta, quindi mi sono risparmiato il colpo alle coronarie che devono aver provato quelli che sono andati alla data dell’Auditorium di Roma, prima tappa del tour mondiale. Loro sono stati gli unici a godere dell’effetto sorpresa; per noi è stato solo un piacevolissimo modo per concludere l’esperienza belli stravaccati sulle nostre seggiole. Eh sì, perché si era tutti seduti, senza neanche un posto in piedi: gli anni passano per i capelli di LaBrie e passano anche per le nostre articolazioni, ché sentire tre ore di Dream Theater in piedi sarebbe devastante anche per il più fanatico degli esteti e cultori del bello, visto che l’età media qua si aggira intorno ai trentacinque-quaranta. Quindi per questa volta mi risparmierò il predicozzo da veri Manowar sui concerti metal che vanno visti in piedi e farò convenientemente finta di niente.

[foto di Paolo Bianco]

Non molto altro da dire. I Dream Theater fanno i Dream Theater e suonano da Dream Theater, con tutti i pro e i contro della situazione. Sono eventi che non vanno valutati di pancia, come la quasi totalità dei concerti della musica del demonio: qui entrano in gioco fattori come la professionalità, la pulizia strumentale e il non presentarsi ubriachi sul palco, che di solito giudico quantomeno minoritari nella valutazione di un concerto. Solo una cosa però: mentre a duemila chilometri di distanza i Black Sabbath suonavano dal vivo per l’ultima volta nella Storia, sarebbe stata opportuna non dico una cover, ma quantomeno una frasetta commemorativa. Poi, visto che i Dream Theater in passato hanno sorpreso i fan suonando interamente Master of Puppets e The Number of the Beast in aggiunta alla normale scaletta, io fossi in loro avrei rifatto tutto Volume 4; tanto in tre ore di concerto avoglia a suonare. Peccato perché ci speravo sul serio; i miei compari per non sbagliare sono andati direttamente a Birmingham, ma se oggi Petrucci e soci avessero davvero fatto quantomeno una cover sarebbe stato come partecipare all’abbraccio dell’universo del metallo ai suoi Padri. (barg)

 

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