Confermare tutti gli stereotipi sui gruppi tedeschi con i PARAGON
I Paragon confermano tutti gli stereotipi di prammatica sul metallo tetesco. Sono coriacei e dritti al sodo, con un suono classico e adrenalinico che nell’impostazione melodica guarda alle glorie del power nazionale (non solo gli Helloween e i Gamma Ray ma pure i Blind Guardian, quantomeno nelle linee vocali) ma nella cazzimmosa essenzialità dimostra di aver ben presente la lezione di storiche formazioni americane come Riot e Armored Saint. In oltre dieci full in poco più di vent’anni hanno mantenuto una costanza qualitativa impressionante (e superiore a quella di molti conterranei più blasonati): non avranno mai inciso un capolavoro ma nemmeno un disco che non valesse la pena ascoltare. Vanno avanti imperterriti nella loro missione qualunque siano le tendenze del momento e portano sempre il risultato a casa. Pertanto, se avete voglia di ascoltare dello speed/power suonato come si deve, non avete necessariamente bisogno di rispolverare i vostri vecchi vinili bisunti o affidarvi a operazioni revivalistiche, per quanto ben riuscite, come i pur validi Enforcer o che so io. Basta mettere sul piatto (per chi ce l’ha, sennò va bene pure Spotify) l’ultimo album dei Paragon e trascorrerete in letizia un’oretta sommersi da una colata d’acciaio fuso dalla quale non vorrete riemergere per un bel po’.
Hell Beyond Bell è l’undicesimo disco dei Paragon ed è pressoché inattaccabile come, in fondo, tutti i suoi predecessori. Dal notevolissimo Force Of Destruction erano passati quattro anni e, considerando la prolificità della band di Amburgo, stavamo quasi iniziando a preoccuparci. Apprensioni vane: se l’ultimo Grave Digger e il nuovo Iron Savior vi hanno deluso, in queste nove randellate troverete sicuramente ricetto. Io li scoprii nel 2002 con Law Of The Blade, il quinto lp, all’epoca incensato da Roberto sul Metal Shock cartaceo. Da allora poco o nulla e cambiato, sebbene mi trovi costretto a lamentare l’addio del vecchio batterista Sören Teckenburg, molto più dritto e irruento del suo sostituto, che ha un’impostazione maggiormente moderna che leva un po’ della magia primigenia. Per il resto non c’è nulla che vada male: riff da barbecue, linee vocali che si stampano subito nelle sinapsi, assoloni frenetici, una facilità di scrittura che veramente solo i tedeschi. Se Heart of the black e Meat train (non so se basata sul celebre racconto di Clive Barker che ispirò anche un noto pezzo dei Domine) non vi fanno venir voglia di brandire uno stinco di maiale e utilizzarlo per malmenare i nemici del vero metal, non so davvero che cosa possa fare per voi. Ottimi come estemporanea alternativa a Tunes Of War e Black Hand Inn come colonna sonora per il tradizionale convito amicale a base di birra e salsicce del giovedì sera. Stand your ground hit personale da ascoltare mentre si grigliano le bistecche di maiale e nel frattempo si tracanna a canna una Franziskaner ruttando e bestemmiando. Deutschland über Alles. (Ciccio Russo)

e poi hanno fatto questo
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