DESASTER @Closer, Roma, 13.10.2012

Tredici anni fa si chiamava Moon Club. Oggi si chiama Closer. Per il resto non è cambiato granché. Fu il primo locale dove misi piede quando sbarcai nell’Urbe. Il weekend facevano le serate metal. I flyer specificavano: “ingresso diecimila lire, ingresso con litro di birra tredicimila lire“. Entravamo tutti col litro di birra. Un annetto dopo in zona Colosseo aprì l’HM, che era grandissimo, fichissimo e trasmettevano pure film horror sul maxischermo. Troppo bello per durare, e infatti non durò. Ricordarne la prematura serrata è l’unica maniera conosciuta per muovere Charles Buscemi al pianto. Nel frattempo aveva chiuso pure il Moon Club e a noi sudici capelloni rimase per un po’ pressoché il solo BlackOut, che però era un contesto da discoteca, dove si andava principalmente per rimorchiare e ci si mischiava ai più sessualmente attivi darkettoni e a torme di alternativi generici fuorisede che scapocciavano sui pezzi dei RATM, mentre il Moon Club e l’HM erano solo sbronze e headbanging, com’era giusto che fosse. Riaprì e cambiò nome due volte. Prima Sonica e poi Traffic. A questo punto aveva una programmazione ipereclettica e ci vidi di tutto, da Moltheni ai Camerata Mediolanense. Poi richiuse. Il Traffic cambiò sede e il club di via Vacuna divenne Closer, riguadagnando una vocazi0ne più borchiata grazie al lavoro di alcune figure storiche dell’underground romano, tra cui il compianto Baffo della Metal Massacre. Ci mancavo da un po’ ma tutto è rimasto veramente uguale. Sopra, il bar. Sotto, pogo, fumo, sudore e volume.

Un po’ temevo per questo concerto. Questa settimana c’erano i Paradise Lost martedì (alla fine ci è andato solo Stefano Greco ma pare sia stato bello), i Master con i Warhammer giovedì (che mi sono perso con mio sommo scorno per volgari ragioni lavorative), gli Arch Enemy venerdì (che, vabbé, lasciamo perdere come è andata a finire) e domenica gli Anathema (che ve lo dico a fare, sono stati meravigliosi). Arrivo e ci sono decine di persone fuori che bevono e chiacchierano. Penso che sia una pausa in attesa che uno dei gruppi in cartello salga sul palco. Mi sbaglio. Dentro ce ne sono il doppio e la macchina da guerra tedesca ha già iniziato i bombardamenti. C’è semplicemente troppa gente perché la sala inferiore riesca a contenerla. Non sono ancora le ventitré ma sono arrivato troppo in ritardo per i Riti Occulti e i Fingernails. Adesso a Roma non solo fanno più concerti di quelli che si riesca umanamente a seguire (e di questo non stiamo certo a lamentarci) ma adesso iniziano pure in orario. Forse c’entra il governo Monti, che ora siamo diventati tutti più precisi. Infatti il giorno successivo io e Charles ci presenteremo all’Orion verso le dieci perché figurati se gli Anathema iniziano davvero alle nove. Arriveremo con le note conclusive di Deep che si avvertivano dall’esterno, perdendoci mezz’ora di scaletta e bestemmiando tutto il calendario gregoriano in pochi secondi. Certo, è stato splendido lo stesso perché a tenere un pubblico per le palle in quel modo suonando quel genere di musica ci riescono solo i Cavanagh. Ma questa è un’altra storia. Fine del flash forward.

Torniamo ai Desaster, che per qualche complessa combinazione del destino, hanno una certa consuetudine da queste parti e sono diventati una specie di culto locale. Il pogo è devastante, di quelli che anche se stai in ultima fila devi fare attenzione che l’ondata di ritorno non ti faccia cascare la birra. E la gente conosce i testi. Parte la devastante title-track di Satan’s Soldiers Syndicate (per chiudere ulteriormente il cerchio, uno degli ultimi album che recensii per il MS cartaceo) e tutti cantano il ritornello come ossessi. Me compreso. Li scoprii con l’esordio, A Touch Of Medieval Darkness, classe 1996,  e da allora si sono completamente trasformati. Già dal terzo Tyrants Of The Netherworld, uscito quattro anni dopo, erano cambiati abbastanza. Niente più epiche suggestioni da cappa e spada. Solo blackthrash brutale, anthemico, cafonissimo e per questo perfetto per svitare vertebre cervicali dal vivo. Non solo hanno una tenuta sul palco invidiabile legata alla lunga esperienza on stage ma, a giudicare dall’atmosfera, si vede che qua sono proprio di casa. Divine Blasphemies viene dedicata proprio al Baffo e scatta un commosso applauso. Poi di nuovo doppia cassa e pedalare, nel segno di una trueness ottantiana. Ognuno dei membri rispetta uno stereotipo estetico immancabile in una formazione di questo tipo. Il batterista ha la pappagorgia, il chitarrista sfoggia una fiera alopecia e di faccia mi ricorda un attore da B-movie che al momento non mi sovviene, il bassista è glabro e magrissimo ed è l’unico con il face painting (magari nella vita è un rampante broker della Commerzbank e non vuole farsi riconoscere) e il cantante è un (anti)cristone nerboruto di quelli che tutti vorremmo dalla nostra parte durante una rissa. Oltre che un grande intrattenitore, che non smette mai di arringare e fomentare il pubblico. Un tipo sventola una bandiera svedese con il loro logo. Dato che loro sono crucchi, si evince che il tipo fosse svedese. Il colpo di grazia arriva con l’inno da stadio Hellbangers, durante il quale il pit si tramuta in un’apocalisse di mazzate alla quale sopravvivo a fatica. Assistere a uno show dei Desaster è un’affermazione di identità. Se volessi spiegare a qualcuno quale sia il mio concetto di heavy metal lo porterei a una serata come questa. Violenta, coinvolgente e, soprattutto, divertente. Terminato il concerto resto là a cazzeggiare fino alle tre del mattino. Perché tutto è rimasto uguale. È bello essere metallari. (Ciccio Russo)

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