A dorso di cammello #4: DARKESTRAH – Nomad

Avevo iniziato la rubrica A dorso di cammello pensando di tenerla regolarmente, almeno una volta all’anno, e di recensirvi gruppi del Medio Oriente. Poi in realtà è andato tutto a ramengo: ci ho inserito sin da subito artisti dell’Africa saheliana e mi sono fermato al 2021, dopo solo tre “numeri”, sia a causa del poco tempo a disposizione sia perché negli ultimi anni sono usciti veramente pochi album metal e affini degni di nota da quella zona geografica – almeno secondo i miei gusti personali. Su quanto poi abbia poco senso accomunare gruppi del Niger con gruppi dell’Asia centrale abbiamo già discusso. Diciamo però anche che Metal Skunk, come sempre, si prende poco sul serio, e qui quantomeno rispettiamo un criterio geografico: tutti i gruppi devono provenire dall’areale del cammello, qui inteso, a scanso di equivoci, come genere tassonomico comprendente cammelli e dromedari e facente parte della famiglia dei camelidi e non come camelus bactrianus, ovvero la specie che comunemente viene chiamata cammello.

“Dichiaro chiusa la polemica tra me e il sottoscritto” – necessaria per trovare un modo di buttare i Darkestrah dentro questa rubrica – e parto subito dicendo che, per me, Nomad, che torna a uscire per Osmose Productions, è il miglior album mai pubblicato dal gruppo black metal kirghizo trapiantato in Germania.

345157275_185031261111824_8055800834394440673_n

Il gruppo si era già distinto per l’ottima qualità dei suoi primi album – quattro solo nel primo decennio del terzo millennio – ma aveva poi ridotto sia quantità che qualità negli anni Dieci – due album, di cui uno decisamente buono, Манас, e uno comunque sufficiente, Turan, e uno split con nientemeno che gli al-Namrood. Fino a questo punto della discografia la provenienza era stata solo una “nota di colore” che creava un po’ di interesse attorno al gruppo, ma non si traduceva veramente in nessuna peculiarità stilistica che li potesse distinguere da altri gruppi tedeschi. E se è sbagliato aspettarsi che ogni gruppo aggiunga qualche aspetto folkloristico solo perché proviene da posti che a noi risultano esotici, è quantomeno più interessante e bello ascoltare connubi generati dagli innesti di un genere musicale fondamentalmente anglosassone (vogliamo dire germanico per includere Germania e Scandinavia?) come il metal, con tradizioni musicali altre e distanti – soprattutto se si tratta di un genere fortemente identitario come il black metal – piuttosto che ascoltare un gruppo viking metal tunisino.

Se si esclude l’EP Chong-Aryk del 2021, uscito peraltro per la Shaytan Productions dei loro amici sauditi, Nomad è la prima uscita da otto anni a questa parte, la prima degli anni Venti. Nomad è anche la prima opera dei Darkestrah dove l’origine centrasiatica di uno o più membri del gruppo non rimane relegata alla carta d’identità, ma si può assaporare e degustare lungo tutta la durata dell’opera – anche di questo c’era forse qualche avvisaglia già nell’EP Chong-Aryk. Lo si sente dalla traccia introduttiva Journey Through Blue Nothingness e dal suo canto gutturale tipico delle steppe asiatiche – che si può sentire ben coniugato col rock anche nella musica dei mongoli The Hu – che ci rimanda a periodi lontani nella storia, in cui popolazioni turche e mongole condividevano territori, cultura, religione e divinità (Tengri, il Dio del cielo azzurro) e distinguere le une dalle altre probabilmente non era così semplice. Lo si sente anche da come questi proseguono senza soluzione di continuità nei ritmi e nei cori femminili delle tracce successive, Kök-Oy e Destroyers of Obstacles, e da come queste atmosfere ci immergono in qualche rituale sciamanico sulle sponde dell’Ysyk-Köl o ai piedi del Jengish Chokusu, luoghi sacri del tengrismo; fino ad arrivare allo stile ai limiti del depressive black metal della traccia The Dream of Kojojash, che riprende un antico poema epico orale kirghizo, e nei canti gutturali che vengono ripresi dalla traccia di chiusura, A Dream that Omens Death, prima di riperdersi nuovamente negli eoni della storia kirghiza.

È un equilibrio molto sottile, quello su cui è basata l’ottima riuscita di Nomad, ed è anche difficile da mantenere. Gli stessi al-Namrood sono riusciti a mantenerlo praticamente solo con Enkar e Wala’at, i loro unici due album che mostravano quella commistione perfetta tra black metal, punk hardcore e stilemi arabi, per poi perderlo rovinosamente con l’ultimo Worship the Degenerate – chissà se l’avranno ritrovato con Al Aqrab, in uscita il 9 giugno, ovvero tra pochi giorni rispetto a quando sto scrivendo. Noi ovviamente speriamo che i Darkestrah abbiano imparato a mantenere l’equilibrio dagli arcieri a cavallo göktürk che cavalcano sulle loro terre secoli fa. (Edoardo Giardina)

Lascia un commento