La lista della spesa di Griffar: necromanteion

Se ben ricordo, nel 2022 indicai come disco dell’anno Black Coven dei MEDIEVAL DEMON, un album che ha riportato agli antichi fasti il black metal greco più ortodosso come neanche gli stessi Rotting Christ, Necromantia e Varathron sono stati più in grado di fare negli anni più recenti. Per certi versi è normale, non puoi scrivere lo stesso disco per sempre e sempre nello stesso modo, ma, ecco, un legame con la propria storia secondo me avrebbero potuto mantenerlo in modo più marcato, specialmente i Rotting Christ. Tre anni dopo quel gran pezzo di disco ha un seguito, il quarto full da quando si sono riformati una decina di anni fa o giù di lì. Metto subito le cose in chiaro: All Powers of Darkness non replica l’exploit, anche se la sua figura la fa.

Il loro suono è diventato più cinematografico, in certe occasioni evoca lo spirito del gotico, dell’horror, un po’ come le colonne sonore di film stregoneschi, un po’ demoniaci, con i sabba, i calderoni fumanti, gli altari dove demoni rossi con la coda a punta sacrificano suore diciottenni illibate… Poi i Medieval Demon oggi suonano molto meno greci di quanto erano soliti fare, visto che di fatto sono in giro fin dagli albori di quella scena unica al mondo. I blast, le svisate di chitarra, gli organi, gli stacchi di effetti con i cori o le voci subumane recitate mi sanno più di Cradle of Filth che di ellenico, e questo snaturamento del loro stile tipico un po’ mi spiazza. Ciò detto, il disco ha dei momenti davvero trascinanti, piace parecchio quando la velocità è più alta e quando i riff sono più fluidi, meno spezzati da effetti o sezioni stravaganti che, per quanto mi riguarda, abbassano l’eccitazione che nasce dai riff molto spesso eccellenti che Lord Apollyon è in grado di comporre. Sinceramente me lo aspettavo che ai livelli di Black Coven non ci sarebbero più arrivati, era inevitabile… ma quel disco è fenomenale. All Powers of Darkness no, è un album interessante con un po’ troppi alti e bassi. Non certo brutto, affatto; solo che mi sa di occasione mancata.

Iron Bonehead, etichetta oggigiorno devota alla pubblicazione più che altro di gruppi blackened death o comunque in quei paraggi lì, si pregia di avere nel roster anche gli svedesi MALAKHIM che con And in Our Hearts the Devil Sings (wow!) tagliano il traguardo del secondo album. Se già il precedente Theion aveva denotato capacità compositive oltre la media, in questo nuovo episodio si va oltre: su basi tipicamente black metal svedese tirate fino allo sfinimento vengono inseriti passaggi che arrivano a toccare lo swedeath/black dei Sacramentum o dei Nagelfar (con il moniker AN suona nei Malakhim Andreas Nilsson, mente di quest’ultimi), il black più tetro dei migliori Lord Belial e la tragicità complessa pseudo-religiosa dei Watain, soltanto che rispetto alle loro più recenti produzioni i Malakhim sono tanto, ma proprio tanto più avanti.

Qui non solo non ci sono brani riempitivi messi lì tanto per fare minutaggio, proprio non c’è una sola nota fuori posto; i brani, nonostante siano discretamente lunghi, volano via grazie a riff talmente pregevoli da far interpellare la propria memoria per ricordare se negli ultimi anni siano usciti dischi altrettanto validi. Fragorosi quando tirano i blast beat, coinvolgenti come i maestri del passato quando si esibiscono nelle sezioni armoniche più tecniche e d’effetto, lo scettro di miglior album black metal svedese 2025 se lo aggiudicano i Malakhim e pure per distacco. Questa è musica che fa digrignare i denti, che ti fa provare odio per il mondo intero: ecco perché nel titolo dicono che il diavolo canta nei nostri cuori, perché tira fuori i nostri sentimenti più neri. Registrazione, produzione nitidissima e arrangiamenti di livello stratosferico completano il tutto. And in Our Hearts the Devil Sings non potete perderlo, gente.

La Norvegia risponde con Svekkelse, il sesto album dei GJENDØD (ma la loro discografia completa è assai più corposa), il quale, parimenti ai suoi predecessori, è una bomba di potenziale detonante non indifferente. Tirato alla velocità del vento polare praticamente dall’inizio fino alla fine senza per questo minimamente risultare monotono, il disco offre otto brani basati su riff tutti oscuramente melodiosi, pure assai complessi perché, se li si ascolta per bene, ci si accorge che non sono per nulla lineari e meno ancora semplici da suonare, specialmente a questa velocità.

I fraseggi verticali che s’insinuano sulla ritmica, spesso doppiati dal basso bene in evidenza, scomodano paragoni con quanto abbiamo adorato in Nemesis Divina, con i Kvist suonati a doppia potenza mentre la ritmica ha proprio l’impostazione peculiare norvegese di gruppi storici come ad esempio Gorgoroth, Trelldom, Carpathian Forest primo periodo (cioè prima che s’invischiassero nel black/thrash più o meno tossico). Poi, come per incanto, arriva la lunga En Staur i Hjertet e qui si va lenti, si vaga in una foresta d’inverno di notte, con la neve così alta che si sprofonda al ginocchio, si avanza faticosamente alla luce tenue della sola luna tra i rami consapevoli che probabilmente non si tornerà indietro. Da lacrime agli occhi. Secondo me avrebbe dovuto essere il brano di chiusura, invece in scaletta arriva a metà disco e questo è l’unico appunto che mi sento di muovere ad un lavoro che viceversa non avrebbe avuto alcun motivo di critica. Io li seguo da sempre, e per quanto mi riguarda questo è il loro miglior disco della carriera.

Cambiamenti si notano anche nella presentazione del disco: l’artwork rinuncia alla copertina luttuosa optando per una più canonica litografia di fauni danzanti, mentre i caratteristici stop’n’go esplosivi e le sue geniali, pregevolissime aperture melodiche totali rimangono invariati. Ad orecchio mi sembra che abbia inacidito il suo screaming in certi frangenti, specialmente quelli dove la velocità decresce un po’, senza invero diventare inappropriato o esagerato, sono solo sfumature. Poi beh, credo sia inutile dilungarsi perché spero bene che Afsky non sia un nome a voi ignoto, basta ribadire che i sei brani sono tutti stupendi e se ancora non vi siete convinti sappiate che di gente in giro capace di scrivere un pezzo come Den der Ingenting Ved Tvivler Aldrig o come Natmaskinen ce n’è pochissima. Bene: è questo il livello anche di tutti gli altri.

A metà anno è arrivato anche il nuovo album degli slovacchi AEON WINDS, introdotto da un lungo pezzo folk basato su chitarre acustiche, poche tastiere e qualche arrangiamenti di violino. Una simile intro farebbe pensare ad un radicale mutamento della proposta musicale della band, consolidata su un black metal atmosferico influenzato dai Summoning in modo non insignificante, se non altro nell’utilizzo delle tastiere in modalità dungeon synth. Non temete, gli Aeon Winds non sono diventati un gruppo folk black metal, gli Haggard sono proprio altrove. Pertanto, in continuità con il loro passato, agli slovacchi piace ancora parecchio tirare i pezzi a gran velocità importanti e staccare con tastiere che molto richiamano alla mente i Maestri austriaci, anche se possiamo notare una maggior propensione ad avventurarsi in atmosfere più epiche e maestose dell’usuale. Cosa che risulta essere tutto meno che spiacevole, sgradevole o peggio; casomai mi viene da pensare che la loro platea potrebbe ingrandirsi, perché, se pur è vero che quando pestano picchiano veramente duro, è altrettanto vero che i momenti più rilassati, melodici e suggestivi si rivelano più azzeccati e piacevoli che mai.

Oltretutto An Ode to the Mountains sembra più chitarrocentrico se paragonato ai loro dischi passati: sia la sei che la quattro corde si fanno carico della riuscita di ogni brano assai più delle tastiere, strumento importantissimo per la band fin dalla sua nascita. Non sto dicendo che le tastiere sono sparite, solo che ce ne sono meno, o comunque risultano meno evidenti. Quando serve si prendono la loro parte di rilievo, ma in questo disco sono meno onnipresenti, c’è un nuovo equilibrio che alza l’asticella della qualità; è una buona notizia perché un gruppo oramai scafato come gli Aeon Winds non può adagiarsi sugli allori e scrivere dischi fotocopia, sarebbe uno spreco di talento. An Ode to the Mountains consta di otto tracce originali, intro ed outro comprese, poi a seconda della versione che si decide di ascoltare (meglio: acquistare) cambiano le bonus track: il CD (uscito per Folter recs.) ne contiene una (una nuova versione di Night Sky Illuminations, loro pezzo del 2023); una delle due digitali ed il doppio vinile ne prevedono due, cioè la succitata e la riregistrazione di un altro pezzo vecchio; la digitale restante e la cassetta non prevedono queste ultime e al loro posto è in scaletta una cover di Mortiis (Reisene til grotter og ødemarker) a chiudere il disco. Aspettatevi in ogni caso un’ora di musica, anche abbondante. (Griffar)

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