Avere vent’anni: BUCKETHEAD – Enter the Chicken

Uno dei rischi, quando si è un musicista che subentra a un’icona del rock, è quello di soccombere sotto il peso dei paragoni passando per uno scarso raccomandato senza personalità, oppure l’antitesi: essere così originale da far però suonare i classici in modo così difforme al punto che ai fan non piaci lo stesso. Buckethead, invece, venne trattato dall’audience dei Guns n’ Roses come una sorta di giocattolo misterioso. Non si potevano muovere grandi critiche a come suonasse i pezzi di Slash (lo stesso Slash lo ha lodato di recente), eppure era l’estetica a tradirlo inevitabilmente: la sua figura non c’entrava nulla con una rock band tradizionale fatta di sudore e trasgressione a petto nudo. Lui era un lungagnone imbacuccato, con un cappello del KFC in testa (al posto del cilindro) e una costante maschera. Altro che sesso, droga e rock and roll: Buckethead era già allora una sorta di hikikomori, concentrato con ingenuità nel registrare quintali di musica, prevalentemente strumentale, che sopravviveva grazie a un marketing basato sul passaparola e destinato a far bestemmiare ogni volontario di Wikipedia ogni mese.

Fu Serj Tankian a ospitarlo nella Serjical Strike Records, dopo averlo conosciuto tramite Bill Laswell. Tankian rimase incuriosito da questo ragazzo dotato di una sensibilità e un’eccentricità fuori dal comune, che gli inviava assoli da quindici minuti sulla segreteria telefonica alle quattro del mattino. Tankian non solo scommise su di lui, ma gli produsse anche il disco e partecipò come ospite in più pezzi. È impossibile non riconoscerlo in We Are One, una filastrocca alla Faith No More, di quelle che i System of a Down sapevano fare bene, almeno prima che Daron Malakian arrivasse con i suoi tentativi di mettere i suoi gorgheggi un po’ ovunque. Serj non risulta altrettanto invadente rispetto al collega, limitandosi spesso a qualche inserto sonoro o fare da spalla in duetti, come in Waiting Here. Quest’ultima traccia avrebbe potuto essere un discreto singolo pop alternativo per le radio FM americane, in un periodo in cui si sbavava dietro alla tipa degli Evanescence che camminava sui cornicioni in sottoveste. Se in quel caso si giocava sulle fascinazioni gotiche, nel brano di Buckethead si avvertono vibrazioni di musica mediorientale, espresse anche in altri frammenti di questo disco abbastanza variegato, sia di stili che di ospiti.

Il disco include il trip hop venato di Beck con Three Fingers (con ospite Saul Williams), il crossover thrash in Botnus (dietro al microfono Efrem Schulz dei, ai tempo ottimi, Death by Stereo), un po’ di death (in Funbus), ma anche brani molto più cazzoni come il country di Interlude o la spassosissima The Hand, che mescola i Mr. Bungle di Disco Volante con le opere liriche dei futuri Diablo Swing Orchestra. Ciò che distingue principalmente questa opera di Buckethead da svariati album di guitar heroes alla Satriani e Vai è il suo non voler ostentare in continuazione quanto il suo membro sia turgido e di proporzioni gigantesche quando sbatte sul battipenna delle sei corde. Raramente scade in momenti di mero “riccardonismo”, persino nel brano che più potrebbe indurlo a farlo: Nottingham Lace, che lo cala nelle più classiche battaglie chitarra/batteria, ovvero la base portante della stragrande maggioranza della sua discografia. Anzi, nella traccia conclusiva il musicista sfoggia un discreto uso di melodia e capacità di tessere trame articolate senza risultare stucchevole per l’ascoltatore. Ed è probabilmente il miglior assaggio dell’intero lotto, che può essere visto come una piacevole base di atterraggio per neofiti del discepolo di Paul Gilbert. Perché, da questa mezza dozzina di pezzi, è già possibile orientarsi in base a un paio di guide su rate your music e scegliersi il Buckethead che più ci aggrada, con la finalità ultima di approfondirlo su Bandcamp: il luogo in cui è possibile trovare un catalogo di suoi dischi così gargantuesco da valere come miniportale streaming a sé stante. Buckethead è, era e sarà sempre così una sorta di Frank Zappa di un pollaio cosmico che sarebbe potuto uscire dall’inchiostro di Todd McFarlane, e Enter the Chicken rappresenta “solo” la copertina della prima uscita del suo albo. (Federico Francesco Falco)

3 commenti

  • Avatar di SimonFenix

    Esiste qualcuno che possiede o almeno ha ascoltato tutto quello che ha pubblicato? Qual è il senso di pubblicare tutto quello che suona? Cosa rimane in testa dopo tutte queste sbrodolate strumentali?

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