Avere vent’anni: agosto 2005

FEAR FACTORY – Transgression

Ciccio Russo: Come naturale, le aspettative non salirono proprio alle stelle quando Dino Cazares uscì dai Fear Factory, la Roadrunner mollò il gruppo e il bassista Christian Olde Wolbers prese in mano le sei corde e il timone compositivo. E invece Archetype si rivelò un album sorprendentemente buono, che batte buona parte della produzione successiva al ritorno dello, ahem, ingombrante chitarrista. Le cose andarono però subito a puttane l’anno successivo, quando la band traslocò presso un’etichetta sfigata che pretese subito un nuovo disco. Transgression è un lavoro rabberciato, scritto in fretta e prodotto male, che cerca di essere commerciale senza mai riuscirci, anche a causa dei suoni tirati via. Wolbers raccontò di essere stato buttato fuori dallo studio da Burton C. Bell, che scelse tra i 20 pezzi composti quelli che gli sembravano meno estremi e si occupò da solo di stendere melodie e linee vocali. Il risultato viene ricordato come “una schifezza”, dallo stesso Wolbers, che subito dopo avrebbe lasciato la baracca insieme al batterista Raymond Herrera, aprendo la strada alla riconciliazione tra il cantante e Cazares, in seguito protagonisti di una telenovela ancora più lunga e desolante. I due fuoriusciti avrebbero poi fondato gli Arkea, svaniti nel nulla dopo un unico, trascurabile Lp. Herrera sembra essersi ritirato dalle scene. Wolbers ha invece intrapreso una discreta carriera come session e oggi suona il contrabbasso nei Cypress Hill.

ENTWINE – Sliver

Michele Romani: Degli Entwine ho già parlato diffusamente in occasione dei due full precedenti, vale a dire Times of Despair e il loro maggiore successo, vale a dire DiEversity. Di questo Sliver in realtà non c’è molto da dire, trattasi infatti di un EP che si compone di due pezzi live ed una cover dei Savage Garden, ed essendo solo cinque i brani gli inediti si riducono alla bellissima Break Me (una delle mie preferite dei finlandesi) e la semi-ballad Still  Waiting, che non raggiunge i livelli della precedente ma resta sempre un ottimo brano. Per il resto chi conosce gli Entwine sa esattamente cosa aspettarsi, ovvero un gotico pipparolo antesignano di grandissima classe, per una band che nel suo genere non ha mai sbagliato nulla e di cui ci si è scordati troppo in fretta.

ENDSTILLE – Navigator

Griffar: La quarta prova sulla lunga distanza per i teutonici Endstille esce in una sonnolenta estate di vent’anni fa. Eravamo ancora scottati (letteralmente) dalla brutale estate 2003, divenuta proverbiale per quanto fu calda, caldissima, rovente, da ustione, e le temperature degli anni appena successivi ci sembravano bazzecole; così si dormiva, si lavorava (io, tanto per cambiare), ma la sensazione era che tanta brutalità termica non l’avremmo più sofferta. Ci siamo sbagliati tutti, basta vedere le statistiche. Chi non sonnecchiava erano gli Endstille, che, pur non mutando di una sola virgola il loro classico fast&furious war black metal, partorirono un più che discreto Navigator, circa 40 minuti di assalto frontale che rifugge da cedimenti, ammorbidimenti o qualsivoglia mitigazione dell’impatto più catastrofico, e l’unica cosa che fa è picchiare il più duro possibile e tenere il piede a manetta sull’acceleratore dall’inizio alla fine. C’è anche il solito pezzo cadenzato (Bastard… carino, vero?) a metà scaletta, ma nel complesso il disco è un’avanti-tutta verso lo sbriciolamento di qualsiasi timpano osi azzardare l’ascolto ad alti volumi. Non si può biasimarli, ciò che suonano lo hanno sempre fatto come meglio non avrebbe potuto essere, inutile cambiare formule vincenti se non cessano di rivelarsi tali. Per i fan dei tedeschi, ovviamente, e per chi vuole ascoltare pura aggressione senza porsi troppi problemi, con solo la voglia di divertirsi (e non mi pare poco).

THE VISION BLEAK – Carpathia

Barg: Carpathia è un gran bel dischetto, ma soffrì le aspettative esagerate dopo un debutto del calibro di The Deathship Has a New Captain. Non che fosse cambiato molto, nel frattempo, anzi per molti versi l’album in oggetto può dirsi un gemello del predecessore, però, anche a sentirlo e risentirlo svariate volte, non riesce a prendere allo stesso modo. Detto questo, non c’è niente che non vada in Carpathia, anzi tutte le caratteristiche che avevano fatto così tanto ben sperare nei The Vision Bleak sono rimaste,  a partire dall’irresistibile tiro dei pezzi trainati da riffoni massicci e dalle atmosfere da horror anni ’50. Il tutto, come al solito, impreziosito dalla produzione di Martin Keller (già dietro la consolle per Alcest, Nagelfar, Lifelover e Falkenbach, per dirne qualcuno). Il debutto rimane impareggiabile, ma Carpathia merita di ripassare periodicamente nel vostro stereo.

GRAUPEL – Auf Alten Wegen

Griffar: I Graupel, gruppo nel quale ha militato Zingultus in seguito cantante degli stessi Endstille, nel 2005 si presentarono al grande pubblico con il primo full dopo una demo e uno split con gli Encomium che gli aprirono la strada grazie a un cospicuo passaparola underground. Erano tempi nei quali qualsiasi cosa uscisse in Germania in edizione limitata grazie ad etichette come Ván Records diventava immediatamente un pezzo da collezione: tutti, proprio tutti li volevano, e c’erano gli accaparratori che se ne aggiudicavano un tot di copie al prezzo di label per poi rivenderli immediatamente all’asta su eBay a dieci volte tanto. Funzionava così, c’era poco da fare, e, se non eri più che lesto nel procurartene una copia, dovevi sottostare a questo strozzinaggio. Questo accadeva per dischi che oggi hanno un certo valore, ma che nel tempo si sono parecchio deprezzati. Beh, effettivamente la musica contenuta in questo LP valeva qualche sacrificio, tipo starsene svegli fino a quando l’etichetta non metteva ufficialmente in vendita il pezzo, solitamente a notte fonda. Ti portavi a casa una bella sparata di black metal grezzo, non eccessivamente appesantito da arrangiamenti ridondanti o bizantinismi inopportuni, dieci brani efficaci di lunghezza medio/breve (tranne Requies Filii, una decina di minuti comunque non avulsi dallo stile degli altri pezzi) tutti blast beat, basso greve, chitarra distorta marcissima, screaming perfido non grottesco, attitudine retrò con qualche vaga influenza Coroner/Celtic Frost più avanguardistici e riff di ottima fattura. Sebbene considerati ancora attivi, oltre ad Auf alten Wegen i Graupel hanno pubblicato solo uno split 10” con gli Endstille e un altro full, più dissonante e sperimentale (Am Pranger, 2010), prima di sparire. Il disco è stupendo e vivamente consigliato.

EXHUMED – Garbage Daze Re-Regurgitated

Luca Venturini: Alcune band hanno il talento innato di infilare due, tre lavori veramente ottimi e poi una porcata immane. Gli Exhumed, purtroppo sono tra questi. Il disco qui in questione arriva difatti dopo Anatomy is Destiny, uno dei dischi simbolo del goregrind. Garbage Daze Re-Regurgitated è un insieme di cover fatto un po’ alla cazzo per cercare di dare un senso alla band, che un paio di anni prima aveva perso uno dei due fondatori. Jones infatti se ne andò nel 2003 e Matt Harvey cercò di metterci una pezza. Ma dopo poco perse pure Burke, il bassista. Trovò dei rimpiazzi, ma l’insoddisfazione era tale che decise di far uscire ‘sta roba giusto per fare qualcosa e poi sciolse la band. Dopo qualche anno, nel 2010, Harvey arrivò alla conclusione che uscire di scena con un album di cover non era il caso, e quindi riformò la band. Se volete sapere come andò, leggete qui.

OBLOMOV – Mighty Cosmic Dance

Griffar: Quando il black metal atmosferico a tematiche sci-fi non era neanche nel mondo della Luna (tanto per rimanere in tema), un oscurissimo e semisconosciuto gruppo slovacco di nome Oblomov muoveva i suoi primi passi, ovviamente ignorato dai più. Bisognava essere veri appassionati di underground per arrivare a comprare queste chicche, spesso a prezzi di svendita nonostante le copie stampate fossero poche, le label amatoriali e le distribuzioni peggio che carenti. Invero, descrivere gi Oblomov come black atmosferico non è corretto: nella loro musica c’è anche un po’ di black metal (nella voce, principalmente), ma in prevalenza si riconosce il melodeath svedese come fonte primaria d’ispirazione, con riffoni melodici in up-tempo che si portano sulle spalle la canzone e le tastiere che intervengono a lasciare il proprio marchio solo a tratti. Se non si sapesse che la loro madrepatria è la Slovacchia si faticherebbe a non indicare la Svezia come luogo d’origine della band, che in questo esordio confeziona un pregevole dischetto non lunghissimo, godibile, ben scritto e ben suonato, caratterizzato da riff gustosi ammantati di piacevoli melodie e con un gran bel tiro. Produzione e suoni di buon livello per essere un titolo così tanto di nicchia (purtroppo) che meriterebbe maggior attenzione anche se sono passati vent’anni dalla pubblicazione. Ciliegina sula torta: arrangiamenti di sassofono ad opera di Martin, il tastierista della band. Scoprite voi dove, perché il CD si trova a buon prezzo nel mercato dell’usato ed è un peccato sottovalutarlo. È stato fatto per tanti anni, ora basta.

SWALLOW THE SUN – Ghosts of Loss

Michele Romani: Qui a Metal Skunk gli Swallow the Sun non sono mai stati particolarmente sopportati, io stesso che sono cresciuto a pane e doom death gotico ho sempre fatto una fatica tremenda a farmeli entrare in circolo sin dai tempi dell’esordio del 2003 The Morning Never Came, che invece a Griffar era piaciuto eccome. Sono andato a rileggermi la sua opinione e mi sono soffermato su questa frase: “creano un riff e su questo ricamano arrangiamenti e variazioni che comunque orbitino nei paraggi del riff portante”, il che paradossalmente è il principale motivo per cui non sono mai riuscito a digerirli. Non è neanche un problema di lunghezza dei pezzi, sono proprio queste continue variazioni sul tema e questo esorbitante uso degli arrangiamenti che ogni puntuale volta mi fa perdere il filo di ogni loro singolo pezzo, rendendo il tutto complicato quando non lo dovrebbe essere e, cosa ancora più grave, tremendamente noioso. In realtà c’era un brano che mi piaceva, Don’t Fall Asleep (non a caso uno dei loro più diretti e dalla struttura semplice), ed ero sicuro fosse contenuto in questo disco, invece fa parte di un singolo uscito due anni più tardi. Ho provato anche col successivo, ma le sensazioni che ho provato sono le stesse, e da lì in poi ho deciso di lasciar proprio perdere.

AD HOMINEM – Climax of Hatred

Griffar: Non poteva che avere il numero di catalogo AV088 il terzo album del progetto solista Ad Hominem, capeggiato da Kaiser W e caratterizzato da testi piuttosto parteggianti per ideologie esistite in un lontano, lontanissimo passato. Trascorsi non invano i due anni tra questo capitolo ed il precedente A new Race for a new World grazie alla pubblicazione di 5 split (episodi minori finché si vuole, ma pur sempre rilevanti nella discografia di una band), gli Ad Hominem propongono ancora il loro black scolastico che va “a fiammate”: di base non particolarmente veloce, occhieggiante al thrash d’antan che grosso ruolo ebbe nel definire lo stile black metal negli anni successivi, a tratti diventa bruciante, tritatutto, lanciato a velocità triple. Il risultato finale è un disco vario e godibile, anche se non sarebbe corretto scrivere che i brani sono indimenticabili o pregiati grazie a chissà quale genialità; un lavoro onesto, ben fatto, registrato decentemente con basso in bella evidenza, batteria (session) un po’ confusa dietro alla chitarra strumento principe, sgorgante puro odio ogni secondo che passa senza grosse pretese di innovazione, sperimentazione o quant’altro. Io sarò sempre dell’opinione che, non fosse stato per l’estremismo dei testi, la band non avrebbe mai raggiunto lo status di culto del quale gode fin dai primi passi, ma buon per mister Kaiser W se si è giocato le sue carte con maestria. Gli Ad Hominem tutti sanno chi sono, cosa ragguardevole se si pensa a quanto sono usa-e-getta i tempi moderni. È uscito di recente il settimo album, dopo un silenzio durato circa 8 anni.

CHARON – Songs for the Sinners

Barg: Tanti anni fa avevo un iPod con capacità limitata, tipo 30 giga o qualcosa del genere. Molto spesso quindi non mettevo i dischi interi, a meno che non fossero, boh, i Manilla Road o gli Obituary, ma selezionavo alcuni pezzi dai dischi che mi interessavano. Di Songs of the Sinners avevo inserito le prime due, Colder e Deep Water, che non ho difficoltà a definire capolavori assoluti e incommensurabili del genere in questione, nello specifico quel gothic metal finlandese facilone e sbarazzino derivato dai Sentenced e anche detto suicide metal. Ecco, andandomi a riascoltare dopo tanto tempo il disco intero mi sono reso conto di quanto avessi fatto bene a mettere solo quei due pezzi, perché il prosieguo dell’album è di una noia mortale. Se ne salvano solo un paio d’altri, ma comunque niente di paragonabile a quelle due bordate iniziali. Mettetevele in qualche playlist e dimenticatevi del resto.

THE OLD DEAD TREE – The Perpetual Motion

Michele Romani: I The Old Dead Tree balzarono agli onori delle cronache nel 2003 con l’ottimo disco d’esordio The Nameless Desease , un lavoro che ai tempi diede nuova linfa ad un genere come il gothic metal palesemente in crisi d’identità. La band transalpina in realtà ai tempi non s’era inventata nulla di particolare, il punto di riferimento restano i Paradise Lost del periodo di mezzo così come per questo secondo The Perpetual Motion, che però rispetto al primo mostra più varietà, inglobando influenze ai limiti del death metal e addirittura soluzioni che portano alla scena alternativa britannica di quel periodo. Il risultato finale non è male, soprattutto grazie alla potente e versatile voce di Manuel Munoz, capace di dare una marcia in più ad una serie di brani piacevoli anche se purtroppo non sul livello dell’album precedente. Questo fu un lavoro meno sofferto e più ragionato, e anche l’ultimo di successo dei The Old Dead Tree, altra band che cadde inesorabilmente nel dimenticatoio, non tanto per colpe proprie quanto per un progressivo mancato interesse generale per il genere.

CRANIOTOMY – Cut a Piece for Your Hunger

Griffar: Sottovalutatissimo gruppo slovacco di brutal death metal ultratecnico, in grado seriamente di giocarsela a viso aperto con i grandissimi nomi del genere, i Craniotomy nel 2005 pubblicarono il loro secondo full dopo il debutto di due anni prima che è sempre stato introvabile. Mai riuscito a trovarne una copia nemmeno su Discogs, il che ha del grottesco se si pensa a quanto poca gente conosca effettivamente il lavoro della band. Che definire superbo è limitativo, sia perché il loro brutal spesso scagliato ai limiti del grind è decisamente personale, visto il costante utilizzo nel riffing delle armoniche artificiali che rendono ogni pezzo particolare, strano, cigolante; sia per l’impiego di malcelate melodie che rendono i pezzi differente l’uno dall’altro (e questo è un merito notevolissimo); sia infine perché, se si ascolta con attenzione il disco, ci si accorge di quanto tecnicamente preparati siano gli strumentisti: chitarra e basso si trovano alla perfezione e dipingono trame complicate che il batterista spinge a velocità impossibili, mentre il cantante (beh… cantante…) gorgoglia incomprensibili versi di marciume, cannibalismo e tutto questo genere di cose. L’album dura 32 minuti appena, presenta qualche inevitabile sample senza comunque abusarne, ed è senza timore di smentita uno dei migliori album brutal tech/death che la scena europea può orgogliosamente vantare. Indispensabile, ma se vi piace il genere è pure indispensabile recuperare anche gli altri dischi (in totale ne hanno pubblicati sei, tolto il primo gli altri si trovano) e porre fine a un’indifferenza che ha dell’incomprensibile.

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