Avere vent’anni: QUEENS OF THE STONE AGE – Lullabies to Paralyze
All’inizio del 2005 fui scosso da una notizia devastante: Nick Oliveri era stato licenziato da Josh Homme. A una prima ondata di informazioni generiche, “scarsa professionalità”, “stronzo coi fan” e altre descrizioni perfettamente riconducibili a un elemento del genere, si unì la perfetta chiusura del cerchio il giorno che trapelò che il bassista avesse perfino menato la sua donna. A comunicarlo era stato ancora una volta il chitarrista e leader del gruppo: lì per lì mi sembrò attendibile come quei tizi che insistono per pagare il pranzo al ristorante un attimo dopo essersi accorti che qualcun altro ha appena strisciato la carta di credito. Cazzone o picchiatore che fosse, ormai era andata così.
All’indomani del più celebre album dei Queens of the Stone Age, la dissoluzione del rapporto fra i due significava, per il sottoscritto, che la band poteva essere morta in quel preciso momento.
Un altro problema nel post-Songs for the Deaf era che erano spariti tutti, non soltanto il pelato. Dave Grohl era impegnato dietro a One by One e Mark Lanegan dietro a Bubblegum, sebbene avesse riconfermato una collaborazione a mezzo servizio. Il titolo fu rivelato: Lullabies to Paralyze.
Non so come, quando e perché, ma credo d’avere ascoltato il singolo Little Sister ricolmo di pregiudizi, e pertanto non mi piacque neppure quella. Era, in realtà, una delle canzoni più trascinanti e dirette di tutto l’album. Tuttora, nonostante si impegnino a propinarci una scaletta ammantata di tutto lo schifo possibile e immaginabile, Little Sister ce la mettono, ed è come prendere un’aspirina nel bel mezzo di un forte raffreddore.
Alla produzione tornò Joe Barresi, già dietro le quinte in occasione del debutto. Fu la prima causa scatenante di paragoni non piacevoli: palesemente più distanti dallo stoner rock ridotto all’osso dell’esordio, ecco che il suono di Lullabies to Paralyze spiccava per un non so che d’impastato e ovattato. Il confronto era tutto con Songs for the Deaf, laddove Eric Valentine, già produttore degli Smash Mouth, aveva combinato un qualcosa d’incredibile.
Poi toccò all’amata batteria: Joey Castillo era il picchiatore dei Danzig ed era stilisticamente perfetto per i Queens of the Stone Age e la a loro cara definizione di robot rock. Suonava lineare, ipnotico eppur potente, e non per nulla Josh Homme lo scelse. Due anni prima Dave Grohl aveva messo nero su bianco una delle prove batteristiche più iconiche del secolo in corso, abbinata peraltro a uno dei suoni di batteria più belli che avessi udito in quegli anni di declino dell’industria discografica e format televisivi complottisti sul tema di Daniele Carbonera. Joey Castillo nel mio cuore e nella mia mente partì perdente, qualunque cosa avesse suonato. L’ombra di Dave Grohl era come una safety car che gli impediva d’andare da qualunque parte. Sarebbe rimasto lì dietro, punto.
In coppia col nuovo chitarrista Troy Van Leeuwen, l’ex Danzig diede a Josh Homme un notevole apporto alla composizione. Fu come accertare col notaio che c’era stato un nuovo inizio, dopo che la stesura dei brani era stata compito di Homme e Oliveri per anni, fatta eccezione per qualche sporadico pezzo co-firmato da Mario Lalli o da Dave Catching.
Il disco era piuttosto una bella novità, in tutto e per tutto. Josh Homme aveva individuato l’unico modo per andare avanti dopo una cosa monumentale come Songs for the Deaf salvandosi in calcio d’angolo: cioè scrivere qualcosa di completamente differente, inserire sentori nuovi, resettare o comunque andarci parecchio vicino. Josh Homme cominciò a modulare la voce quasi si sentisse un caratterista, inserendo vaghi rimandi rockabilly. Un altro motivo per comprendere che i Queens of the Stone Age camminassero a passo svelto in direzione opposta allo stoner rock era il fatto che il punk, e la sua costola divenuta dark, cominciassero a fare capolino un po’ ovunque. Diciamo che l’elegante omaggio agli anni Ottanta intitolato Like Clockwork è un percorso che, almeno ufficialmente, prese forma a partire da qui.
I Queens of the Stone Age furono per un’ultima volta un gruppo intenzionato a suonare pesante, almeno in alcuni episodi. Little Sister era pesantissima, Everybody Knows That you’re Insane lo era ancor più. Inizialmente, e in forza a tutte quelle distorsioni, erano le uniche che mi sentii di digerire.
Poi presero forza Tangled up in Plaid, forse il capolavoro del disco, Burn the Witch col cameo di Billy Gibbons, In My Head, I Never Came. Fra gli altri, o meglio, fra le altre ad apparire, Shirley Manson e Brody Dalle dei The Distillers, che di lì a poco Josh Homme sposò dando luogo ad una delle coppie più turbolente della storia recente del rock.
Mark Lanegan messo audacemente in apertura lasciava presagire e sperare qualcosa in più, forse.
Fu l’ultimo album dei Queens of the Stone Age con un suono in qualche modo riconducibile allo stoner rock. In realtà Era Vulgaris sarà ancor più in linea con le sperimentazioni e i gingilli sonori tipici delle Desert Sessions, ma a quel punto la marea sarà scesa ancora un altro po’. Un album, questo Lullabies to Paralyze, all’epoca incompreso e che occasionalmente ancora riascolto, con piacere e con un pizzico di dispiacere per come sono andate le cose fra Josh Homme e quella testa calda di Nick Oliveri. Chissà che storia avremmo potuto leggere, altrimenti.
Ci tengo a precisare che stavolta ero riuscito a non nominare neanche una volta i Kyuss: rimedio subito. (Marco Belardi)





Influenze stoner o meno, per me è l’ultimo album bello dei qotsa poi non li ho proprio capiti
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