Avere vent’anni: PARADISE LOST – st

È innegabile come il periodo legato ai primi anni 2000 non sia stato facile per i Paradise Lost, che dopo il mezzo fiasco di Host (non tanto dal punto di vista artistico quanto commerciale: a me quel disco continua a non dispiacere) cercarono faticosamente di risalire la china con due lavori non proprio indimenticabili dal titolo di Believe in Nothing e Symbol of Life: il primo aveva alti e bassi ma una sufficienza stiracchiata alla fine la meritava; il secondo continuo a ritenerlo il punto più basso in assoluto del quintetto di Halifax (degli undici brani presenti ne salvo solo uno, No Celebration).

La conseguenza fu che, all’epoca, l’attesa per il nuovo album dei Paradise Lost fu piuttosto ansiosa, a causa soprattutto di varie dichiarazioni del mastermind Gregor Mackintosh, che parlava di un ritorno a sonorità più dure, meno derivanti dai Depeche Mode e più in linea con il loro stile dei primi anni ’90, con tanto di riferimenti nelle interviste a Draconian Times o addirittura ad Icon. Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: Paradise Lost sta a quei due dischi quanto i Morbid Angel stanno ai Coldplay, anche se il ritorno alle chitarre più dure e la messa da parte di campionamenti vari è sicuramente un dato di fatto. A rimanere inalterato è il minutaggio dei pezzi, tutti molto corti e incasellati sul classico schema strofa-ritornello. La cosa più importante, comunque, è che i brani presenti su questo disco sono quasi tutti di livello altissimo.

L’accoppiata Holmes/Mackintosh sembra veramente ispiratissima, sin dall’iniziale Close of Eyes passando per perle assolute come Grey, All You Leave Behind, Accept The Pain, Shine (stupenda) tutte dalla struttura molto semplice e capaci di restarti in testa sin dal primo ascolto. Una menzione in particolare la merita la voce di Nick Holmes, tornata finalmente più convinta e graffiante (anche se forse un po’ troppo filtrata in alcuni punti), e la produzione, molto secca e priva di orpelli, che trovo perfetta per un lavoro del genere.

Paradise Lost, non so perché, da molti viene ricordato solo come un disco di passaggio nel ritorno alla sonorità death doom dei primi lavori, e credo non sia neanche particolarmente amato dalla band, dato che in sede live è sempre stato riproposto poco e niente. Ed è un peccato, perché è tutto godibilissimo dall’inizio alla fine, non ha neanche un riempitivo  e, in definitiva, è anche molto meglio di alcune cose più “forzate” venute dopo. (Michele Romani)

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