Avere vent’anni: febbraio 2005

PRIMORDIAL – The Gathering Wilderness

Il Maresciallo: The Gathering Wilderness è forse il disco più oscuro di tutta la discografia dei Primordial. Qui il tema fondante è la paura per il futuro, la percezione di un cambiamento ineluttabile del mondo che ci circonda e la presa di coscienza che il peggio debba ancora venire, che il mondo stia per precipitare in una realtà primordiale di conflitto e assenza di regole e riferimenti. L’unica cosa tangibile sono i fantasmi del passato che tornano a morderti le ossa, a toglierti il fiato e a precipitarti nella sconfortante attesa della fine. Non c’è rivalsa, non c’è battaglia, solo una snervante attesa. Molto doom in un certo senso, ipnotico, rituale, con la solita interpretazione estremamente teatrale e appassionata di Alan Averill che, come Caronte, ci traghetta verso la città dolente.

BLOOD RED THRONE – Altered Genesis

Luca Venturini: Partiamo dal presupposto che Belardi ha sempre ragione: rileggendo quanto scritto dal migliore dei colleghi circa il precedente disco dei norvegesi Blood Red Throne, mi trovo assolutamente d’accordo su tutto. Anche se non fossi d’accordo, davanti a voi direi comunque di essere d’accordo, cari 16 lettori. Comunque, Affiliated with the Suffering non era davvero niente di che. Altered Genesis invece è un buon disco, ma buono nel senso che lo ascolti per una settimana e poi ciao. Magari anche due, toh, ma non c’è niente di così esaltante che mi trattenga qui più a lungo di qualche ascolto, giusto così per cambiare un po’. Quello che mi son sempre chiesto è se davvero qualcuno se li sarebbe mai curati se non fosse (stato) per il peso specifico dei suoi componenti. Sicuramente i ragazzi conoscono la materia e qualche pezzo buono qui l’hanno tirato fuori, tipo la traccia omonima, ma poi sento l’assolo di State of Darkness, che sembra venuto fuori da Doctor Feelgood dei Motley Crue, e tolgo il disco dallo stereo.

RUNNING WILD – Rogues en Vogue

Barg: Dura più di un’ora, per la precisione 64 (sessantaquattro) minuti con pure un pezzo di dieci minuti Rogues en Vogue, ennesimo disco dei Running Wild, stilisticamente identico a quelli prima e quelli dopo epperò comunque gradevole da ascoltare nonostante sia uno dei loro peggiori. Si sente da cani, dato che all’epoca Rock’n’Rolf era da poco entrato nel tunnel del fai-da-te in cui componeva, suonava e produceva tutto da solo, col risultato che Rogues en Vogue pare un demo registrato in presa diretta in una cantina con le pareti di marmo. Non c’è troppa carne al fuoco, ma è sempre un disco dei Running Wild e vale il costo del biglietto anche solo per l’attacco di Skull & Bones con quel riffone da vento in faccia, le chitarre svolazzanti di Angel of Mercy o ancora Soul Vampires, pezzo un po’ così ma che si risolleva con un minuto pieno di assolo (su meno di 4 totali). Il pezzo da dieci minuti, come da tradizione, potevano risparmiarselo. Peraltro credo che possa essere considerato una suite, visto che cambia tono e melodia più volte, addirittura fermandosi completamente tra una parte e l’altra. Penso sia uno dei pezzi peggiori della storia dei Running Wild e in più spezza le gambe al disco, anche perché non è manco messo alla fine. Fortunatamente dopo parte Cannonball Tongue che è una bella mina in pieno stile Running Wild, e si vola. Dopo quest’album una pausa di sette anni con pure uno scioglimento-lampo, fortunatamente rientrato nel giro di qualche mese, e il ritorno con Shadowmaker, uno dei miei dischi-feticcio degli anni Dieci.

AMERICAN HEAD CHARGE – The Feeding

Edoardo Giardina: Da ragazzino avevo grandi idee sul gruppo che avrei voluto fondare. Nella mia testa doveva essere l’unione tra il progressive death che ascoltavo assiduamente e l’atmospheric sludge con cui ero entrato in fissa. Il membro che non riuscivamo mai a trovare era il batterista, bestia nera dei gruppi da fondare (insieme al bassista, che però ero io). Come prima prova avevamo una scaletta tutto sommato fattibile: Domination dei Pantera, One dei Metallica e The Grand Conjuration degli Opeth. A queste chiedevo a ogni batterista di aggiungere una canzone a scelta. In mezzo a varie peripezie – tra cui uno che si presentò in saletta e ci disse che non si era preparato nessuna canzone – mi capitò anche un tizio che ci chiese di programmare la prova dopo tre mesi per non meglio specificati impegni – primo campanello d’allarme – e che come sua scelta propose Loyalty degli American Head Charge – secondo campanello d’allarme. All’epoca non li conoscevo e scoprii che, sebbene fuori dal giro dei principali gruppi nu metal, potevano comunque essere considerati un culto nel genere. Non ne ho mai capito il motivo, ma suppongo che lo zampino di Rick Rubin come produttore del precedente The War of Art c’entrasse qualcosa. Loyalty alla fine è forse l’unica canzone ascoltabile di The Feeding, che su Spotify viene chiamato The Feeling (…) e che per il resto mi ha sempre ricordato New Found Power dei Damageplan – senza un genio come Dimebag Darrell alla chitarra che potesse dargli un minimo di personalità. Col batterista come finì? Rimasto scottato dalle precedenti esperienze e volendo conoscerlo un po’ meglio, gli scrivevo ogni tanto su MSN chiedendo come procedeva. Dopo circa un mese mi disse che non avrebbe potuto suonare con noi perché di lì a due mesi avrebbe avuto – cito testualmente, qualunque cosa voglia dire – “la spalla sminchia”. Non cercai neanche di capire e non lo contattai mai più.

OCTOBER FALLS – Marras

Michele Romani: In ambito di puro e incontaminato folk nordico ci sono solo due dischi che reputo superiori a Marras: Kveldssanger degli Ulver (che è un po’ il capostipite del genere) e Forlatt, primo parto del progetto solista norvegese Vàli. Anche dietro agli October Falls si cela una sola figura, quella di Mikko Lahto, che nel corso della sua carriera ha sempre alternato dischi puramente folk ad altri più indirizzati sul classico black atmosferico. Senza nulla togliere a questi ultimi, trovo che l’artista finlandese abbia dato il suo meglio nei lavori folk-acustici, tutti strutturalmente molto simili (chitarra acustica e qualche sporadico inserto di piano) di cui questo Marras è sicuramente il più inspirato. I brani sono tutti strumentali e non hanno nome, ma solo un numero crescente, e sono pur nella loro estrema semplicità uno più bello dell’altro, anche se parliamo sempre di un genere particolare per il cui ascolto ci vuole una certa predisposizione e un certo stato d’animo.

TAVARON – Suizid

Griffar: Non hanno avuto fortuna, i Tavaron, gruppo black tedesco nato nei primi del 2000 e tuttora attivo, pur con una discografia decisamente sparuta. Eppure il loro esordio è un buon dischetto. Nulla che rivoluzioni la storia della musica o ridisegni la Tavola Periodica degli Elementi, però siamo onesti: in questi vent’anni si è sentito di molto peggio, e il loro black metal asciutto, canonico, non particolarmente complesso sebbene godibile ha un suo perché, specialmente se vi piacciono i primi Nargaroth, primi Gorgoroth e cose di questo tipo. Suizid dura circa mezz’ora e non ha particolari funambolismi strumentali, anche se nel primo pezzo il batterista Trist si cimenta persino in dei controtempi dispari, non trascurando poi il fatto che i pezzi sono solidi, con riff quasi basilari ma efficaci, melodici quanto basta senza essere cheesy, a volte anche veloci ma più comunemente medio/lenti, senza sconfinare nella lentezza esasperata del depressive black. Esula dal contesto la conclusiva Abschied, che si apre con un malinconico giro di chitarra acustica e voce sussurrata, accompagnato da un arrangiamento di flauto traverso, che si prolunga forse un po’ troppo vista l’esigua durata totale del disco. Poi ritorna sul loro stile preferito, si apprezza per il tentativo di fare qualcosa di meno ortodosso ma si poteva essere più sintetici. La band, come detto, non fu fortunata. Quell’anno stesso il cantante Nazgul morì, oltretutto essere prodotti da un’etichetta minuscola (la Live Eclipse, ovviamente morta e sepolta) non ne agevolò la carriera. In seguito hanno inciso altri due album, pure gradevoli: Architektur des Schmerzes (2009) e Depressive Black Art (2019); a dimostrazione di quanto poco siano considerati tuttora, i CD ve li tirano dietro a pochi spiccioli.

EKTOMORF – Instinct

Barg: Mi ero completamente dimenticato degli Ektomorf, che per me sono legati ad un periodo particolarissimo della mia vita peraltro proprio coincidente con l’uscita di questo Instinct. Loro sono la creatura dell’ungherese Zoltan Farkas, evidentemente innamorato dei Soulfly tanto da suonare pari pari a loro, compresa la voce incredibilmente simile a quella di Max Cavalera. Ho già detto più volte cosa penso dei Soulfly, quindi immaginatevi che considerazione potevo avere degli Ektomorf, fatto salvo che Zoltan mi sta molto più simpatico del puzzone brasiliano. Con lui mi incrociai ad un Metal Camp, in Slovenia: aveva la tenda vicino alla nostra e ci raccontò che aveva preferito intascarsi i soldi dell’albergo perché tanto a lui piaceva campeggiare. L’ultimo loro album che abbia mai sentito è proprio Instinct, che era il settimo in ordine di uscita; stando a Metal Archives ne sono usciti altri dieci (l’ultimo un paio d’anni fa), e ho come la sensazione che siano tutti uguali, proprio come quelli dei loro idoli.

SOILWORK – Stabbing the Drama

Il Maresciallo: Dischetto bombardone, all’epoca buon punto di ingresso per il genere. Suoni grossi, puliti, secchi e un paio di melodie che ti si stampano in testa. L’inizio in effetti parte piuttosto bene, nel suo essere smaccatamente cafone ma con quell’aria da tenebroso buono e un po’ sensibile, la verità però è che sulla lunga distanza stanca. I Soilwork facevano parte di quella scena goteborghiana che ha spadroneggiato per anni e che rappresentava il “moderno” ma che oggi non si sente praticamente più, quantomeno non in questa forma. Li vidi dal vivo nel 2007, era uscito da poco il disco successivo, naturale continuazione di questo, ma da Stabbing the Drama pescarono comunque molti pezzi e dunque sono legato a questo suono dal punto di vista sentimentale, perché mi ricorda l’inizio di un periodo per me piuttosto importante. Io comunque un ascoltino, almeno alla prima metà del disco, gliela darei.

ENTOMBED – Unreal Estate

Luca Venturini: Unreal Estate è un disco un po’ strano, per come è stato concepito. È registrato dal vivo, presso la Royal Opera House di Stoccolma, quindi non esattamente un posto dove vedere un concerto metal, e le musiche sono interpretate dalla Royal Ballet Company, compagnia di balletto del teatro, penso. Quindi a uno verrebbe da pensare che l’abbiano anche registrato su DVD. Invece no. C’è solo la registrazione audio. L’energia che si percepisce è diversa rispetto a quella che ci si aspetterebbe da un live degli Entombed. La band suona bene e la verve non manca, ma chiaramente l’approccio è diverso. Non si sente il rumore del pubblico ma si sentono i vuoti a riempire gli spazi tra una canzone e l’altra (in realtà credo l’abbiano volutamente ripulito dagli applausi e tagliato i secondi di attesa tra i pezzi successivamente in studio, in maniera da renderlo più ascoltabile su CD). Le canzoni, prese per lo più da Uprising e Morning Star, sono state leggermente riarrangiate per rientrare alla perfezione nel contesto. Il disco è veramente bello, è diverso, e la band si sente essere perfettamente a proprio agio anche a teatro. Un esperimento riuscito molto bene che vale sicuramente più di un ascolto.

SOMBRE CHEMIN – Doctrine

Griffar: Uscito per un’etichetta francese di livello ben inferiore all’underground più melmoso, il debutto dei transalpini Sombre Chemin fu introvabile sin da subito. Rientra nella categoria di dischi che qualcuno si vanta di possedere ma del quale in effetti nessuno ha mai concretamente visto una copia; dovrebbero essere 500 ma, vista l’attitudine radicalmente lepeniana della band, è molto probabile che ne esistano molte meno, ammesso che ancora ne esistano. Ci pensò la greca ISO 666 due anni dopo a ristamparlo, con un brano in più e rimasterizzato. Non oso pensare come suoni l’originale, perché già questo ha dei suoni che al giorno d’oggi neanche in una delle demo più merdose verrebbero apprezzati. Con alle spalle tre demo e cinque split, i Sombre Chemin erano già un progetto con un forte seguito nell’underground politicizzato a destra; riascoltandoli, mi sorge il sospetto che tutto l’alone mistico del quale godevano era più dovuto all’estremismo dei testi che all’effettiva consistenza musicale, specie nei dischi più datati. Doctrine nella versione ISO 666 contiene 9 brani: una strumentale pseudo-ambient, un breve brano tastiere/voce pulita, una outro, una cover di un gruppo RAC (i Bunker 84) e una dei Graveland. Rimangono quattro pezzi scarni, suonati da gente che gli strumenti in mano li teneva per pura pietà. Un po’ punkeggianti, un po’ Burzum, un po’ Ildjarn. Roba molto grezza, alla quale la produzione ultraminimale non faceva certo un favore. Melodie semplici, ritmi quasi mai serrati, mi vien da dire che è invecchiato assai male perché, se solo mi metto a pensarci un attimino, mi vengono in mente 2.584.666 gruppi black che hanno fatto cose migliori. Va però detto che negli anni sono migliorati come strumentisti e hanno scritto brani meno terra-terra. Prima dello scioglimento (2012, giù di lì) hanno pubblicato un altro full (Notre héritage ancestral) e la trilogia Hétérodoxie, composta da un EP, uno split 10’ e un ultimo full. Non sprecate tempo a cercarli, è tutto materiale bandito ovunque. SE li trovate, occhio ai bootleg.

CEMETARY – Phantasma

Barg: Grazie a questa rubrica abbiamo potuto ripercorrere la seconda parte della carriera di Mathias Lodmalm, nello specifico da quando sciolse temporaneamente i qui presenti Cemetary per fondare i Sundown (una specie di estremizzazione dei concetti espressi con la band principale) fino alla riformazione degli stessi Cemetary con gli ultimi due dischi prima del definitivo scioglimento. Phantasma è l’ultimo album della sua creatura, paradossalmente – ma manco troppo – più simile ai Sundown che ai primi dischi a nome Cemetary: si tratta di un metallo pesantemente industriale, claustrofobico e fortemente legato al proprio tempo, in cui si riconoscono tutte le fisime e i tic di questo tipo di musica che però all’epoca già aveva smesso di andare troppo di moda. L’album parte bene coi primi due pezzi, specie l’orecchiabilissima Plasma Phantasma, poi però si perde abbastanza rapidamente tra rumorini, suoni artificiali e voci filtrate all’inverosimile. Dura 42 minuti ma sembrano due ore, ma se fosse stato tutto condensato in un Ep ne staremmo parlando in maniera molto diversa. Vecchia storia. Peccato però che non esistano più, perché Lodmalm almeno un paio di bei pezzi a disco riusciva sempre a infilarli.

GREEN CARNATION – The Quiet Offspring

Michele Romani: Dei Green Carnation su questo pregiato blog avevamo già parlato in due: L’Azzeccagarbugli in occasione di quel capolavoro dal titolo di Light of Day, Day of Darkness e il sottoscritto per il suo degnissimo successore, sebbene molto diverso come stile, A Blessing in Disguise. Stilisticamente questo The Quiet Offspring gli si avvicina molto, le ombre perenni del secondo infatti vengono definitivamente diradate da un lavoro se vogliamo ancora più solare del precedente e con un’anima progressive e settantiana leggermente più accentuata. Lo stile come al solito varia di molto di brano in brano, tutti di medio-alto livello, tra cui spiccano Just When you Think it’s a SafePurple Door Pitch Black e la stupenda Child Play part 1, quest’ultima che riporta parecchio al primo periodo del gruppo. I Green Carnation sono un gruppo che, per quanto mi riguarda, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe effettivamente meritato; forse hanno scontato fin troppo il fatto di non essere classificabile in uno stile ben preciso, cosa che nel mondo del metal prima o poi paghi sempre.

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