Frattaglie in saldo #64

Il premio speciale della giuria come miglior gruppo clone dei Dissection del 2024 va senza dubbio ai The Spirit ma sappiate che gli KVAEN ci sono andati dannatamente vicino, pur mantenendo un’aderenza al canone meno ortodossa rispetto ai tedeschi in virtù di qualche richiamo ai Naglfar. I nostri lettori più affezionati conosceranno già benissimo il progetto di Jacob Björnfot, trentenne svedese che fa tutto da solo e lo fa sempre meglio. L’esordio The Funeral Pyre, pur pregevole, mostrava qualche calo nelle parti più cadenzate. Il successivo The Great Below era una bomba ma, puntando più sull’aggressività, osava un po’ meno. In questo The Formless Fires tutte le tessere vanno finalmente al loro posto e l’alternanza tra i brani sparati, non privi di richiami al thrash (Traverse the Nether), e le sezioni più fosche e notturne gira alla perfezione. Jacob è maturato e la sontuosa title-track posta in apertura prende alla gola e mette subito le cose in chiaro. Ovvio, se cercate l’originalità dovrete rivolgervi altrove ma sul perché copiare i Dissection sia cosa buona e giusta si è già dilungato a suo tempo il Barg. E se siete legati alla creatura di Nödtveidt sarà difficile trattenere una lacrimuccia ascoltando l’arpeggio di De Dödas Sång.

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Dalla gelida Scandinavia passiamo alle atmosfere torride e soffocanti della scena ellenica con i THYRATHEN, consigliatimi da un lettore che aveva tirato fuori i Nightfall di Athenian Echoes, cioè uno dei cinque o sei migliori dischi usciti dalla Grecia negli anni ’90. Il riferimento ci sta, soprattutto nell’utilizzo di strumenti tradizionali nei frangenti ritualistici. E qua e là vengono in mente certi esperimenti dei Kawir. All’inizio mi ero entusiasmato perché l’effetto madeleine è inevitabile. Alla voce c’è pure Necroabyssious dei miei adorati Varathron. Lakonic, secondo Lp dei tessali, però regge poco la prova del tempo a causa di un andamento troppo monolitico e ripetitivo. I tempi medi rasentano il doom e sarebbe stato utile qualche sbrocco in doppia cassa a casaccio in più. Un altra chiave di lettura può essere leggerlo come un album heavy psych suonato in stile black greco e sentirlo sotto effetto di stupefacenti. Ma tanto se amate il genere sarete già corsi a sentirli a prescindere. Perché comunque so’ ggreci! So’ bboni? Come so’, dite la verità!

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I PATHOLOGY sono un mio gruppo feticcio e ne ho recensito ogni uscita da quando esiste questo possente blog. Ormai sono una band completamente diversa da quella di cui mi innamorai ai tempi dei loro primi lavori, quando ancora c’erano membri dei Disgorge. Per lungo tempo erano diventati una faccenda solista di Dave Astor con carneadi intercambiabili che aveva prodotto alti e bassi. Dopo un periodo di crisi, con la sospensione dell’attività del vivo, i Pathology hanno ingranato di nuovo e, udite udite, sono arrivati al terzo album consecutivo con la stessa formazione. Il problema è che quello che fanno oggi non mi interessa. Unholy Descent approfondisce la svolta stilistica segnata da Reborn to Kill e accentuata in The Everlasting Plague (titolo incoraggiante uscito in pieno coviddi). Ovvero un deathcore mai troppo truculento con assoloni funambolici e aperture melodiche nelle parti più lente. Tutto ben suonato, ben prodotto (pure troppo) e congegnato con competenza, per carità, ma ho fatto fatica ad arrivare alla fine. (Ciccio Russo)

 

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