Con Heavy Lifting la mummia degli MC5 entra finalmente in un museo. Ce n’era il bisogno?
La Rock and Roll Hall of Fame, sul cui senso e sui cui meccanismi ci ha già brillantemente edotto Charles tempo fa, ha sede a Cleveland, Ohio, la città dei Pere Ubu, dei Dead Boys, dei Pagans, in un edificio che ha la forma di una piramide postmoderna di vetro. Ora, già questo sarebbe significativo. Innanzitutto per la forma stessa, nella quale, se non volete vederci significati massonico/esoterici, riconoscerete sicuramente il simbolo del potere centrale, dispotico. D’altronde, quando si parla di una struttura sociale rigida, gerarchica, tutt’altro che libertaria, si usa proprio la parola “piramidale”. Anche il vetro è significativo, perché è il materiale più identificativo dell’architettura contemporanea. Costa tantissimo, il vetro: il materiale, la tecnologia per metterlo in opera, il dispendio di energia per mantenere il benessere degli edifici visto che non isola dal freddo e rischia di trasformare qualsiasi edificio in una serra l’estate. Infatti i poveri non si possono permettere mica di rivestire di una pelle di vetro le proprie case e si limitano ad usarne lo stretto necessario per l’illuminazione delle stanze. I ricchi, i potenti, invece si possono permettere di rivestirci intere torri che svettano fino in cielo, le vere e proprie piramidi moderne, le sedi delle “corporation”, delle multinazionali, delle agenzia governative o internazionali. Che dietro ci sia la finanza o un’istituzione politica, più o meno democratica che sia, il linguaggio non cambia.

Un linguaggio ipocrita, perché il messaggio che vuole veicolare è, appunto, quello di democraticità, vista la naturale “trasparenza” del vetro, quando in fondo si tratta di un mix di controllo (tu che sei dentro sei sempre ben in vista) ed esibizionismo. Così l’istituzione ricca e potente può permettersi di mantenere quell’immagine di finta trasparenza, al costo di avere servitù, preferibilmente proveniente da altre parti del pianeta, che pulisce e mette in ordine costantemente tutto. E una struttura di dipendenti ordinati, calmi, ben ammaestrati, diligenti, presenti. Che figura ci farebbe una società che avesse la sede in un palazzo di vetro che lasciasse trasparire da fuori disordine, sporcizia e poca cura dell’arredo? Ah, già, perché poi anche tutto l’arredo, qualsiasi dettaglio, deve essere di design, essendo esibito. Altri costi, altro status symbol, altro esibizionismo di questa architettura “democratica”. Il povero ringrazia di avere un muro (quando ha un tetto) che occulti da fuori la sua miseria, in modo che possa raccogliere le forze per presentarsi dignitoso quando esce fuori. Anche il ricco, tanto, rientra di solito la sera in una villa ben recintata da muri alti, spessi, opachi. Perché il suo vero carattere è meglio che lo occulti, spesse volte. E magari pure il fatto che i soldi non sempre sono in grado di fargli acquisire buon gusto, in privato.
La sede della Rock’n’Roll Hall of Fame di Cleveland, Ohio, l’ha progettata un grande architetto cinese, Ieoh Ming Pei. I più, nel giro degli architetti o di chi fa bene o male parte di quel mestiere, lo conoscono solo come Pei. Più facile. Sicuro che avete presente un’altra piramide di vetro, sempre di Pei: quella del Louvre, il museo per antonomasia. Pieno di manufatti artistici di immenso valore provenienti da ogni dove del globo, spesso sgraffignati dagli eserciti francesi in transito nella loro opera colonizzatrice, anche se non sempre. Dentro, per dire, ci trovate tantissime mummie egiziane, un tempo a riposo magari sotto qualche piramide di pietra, resti di qualche despota teocratico vissuto millenni fa, magari, e ora immagazzinate e catalogate sotto la piramide “trasparente” del potere democratico, civile e “post”-coloniale di oggi. I grandi architetti finiscono sempre per costruire per i potenti, perché sono quelli che hanno i soldi per realizzare le opere più grandiose. Ma Pei, passato a miglior vita recentemente nel 2019, era particolarmente capace nel realizzare musei.
Io ho apprezzato moltissimo, visitandola, la sua ultima opera realizzata, il Museo d’Arte Islamica di Doha, Qatar, fortunatamente non realizzata in vetro perché è da fessi abusare del vetro a quelle latitudini (eppure…). Il suo edificio dalle geometrie austere, mistiche e sicuramente autoritarie, per quanto gentili, racchiude una collezione bellissima con cui un autocrate odierno (che ha come merito il fatto di discendere dal capo di una tribù che aveva montato la tenda sopra qualche giacimento di gas) ha voluto esibire la grandezza artistica della “sua” cultura, quella islamica. Peccato che le opere dentro siano tutte provenienti da India, Persia, Siria, Turchia, Egitto, Marocco, Spagna e Sicilia, e non, come potrete immaginare, dalla sabbiosa penisola arabica. Certo, non ha avuto bisogno di disperdere eserciti in giro per il mondo per raccogliere tutta quell’arte, gli son bastati i soldi.

Anche la sede dell'”istituzione” Rock’n’Roll Hall of Fame è un museo. Alla celebrazione per l’inaugurazione della sede, l’edificio di Pei, hanno suonato musicisti del calibro di Aretha Franklin e Bruce Springsteen. C’era pure Iggy Pop e questa cosa non dovrebbe stupire nessuno, anzi, è molto indicativa. E io, sul caro vecchio Iggy, ho già espresso la mia opinione. Personale e non popolare. Gli Stooges sono stati inseriti nella lista nel 2010, “presentati” da Billy Joe Armstrong dei Green Day. Iggy Pop invece a sua volta introdusse i Nine Inch Nails. Mancavano invece i fratelloni maggiori (ma non per questo molto più responsabili) degli Stooges, ovvero i Motor City Five, noti più sinteticamente come MC5, i quali sono stati inclusi solo l’altro giorno, ma nella categoria “Musical Excellence”, che è una sorta di “serie B” realizzata per premiare artisti “minori” (“Established in 2000 as “Sidemen“, the category “honors those musicians, producers and others who have spent their careers out of the spotlight working with major artists on various parts of their recording and live careers”, riporta Wikipedia a proposito della categoria in cui rientrano, pensate un po’, i Judas Priest). Nella “serie A” quest’anno hanno fatto invece ingresso nomi blasonati come Ozzy Osbourne (“sponsorizzato” da Jack Black), Cher (Zendaya), Mary J. Blige (Dr. Dre), Dave Matthews Band (Julia Roberts). Non vi causino sdegno i nomi menzionati, che col rock spesso c’entrano nulla. Vi ripeto, Charles ci ha già spiegato tutto. A promuovere gli MC5 è stato invece Tom Morello, di quei Rage Against the Machine ammessi alla serie A grazie all’appoggio di Ice-T l’anno scorso, l’anno in cui hanno “esordito” anche Missy Elliott, Sheryl Crow e George Michael.
Tom Morello è stato l’unico dei RATM a salire sul palco per ritirare l’onorificenza, per non perdere l’occasione di predicare la Rivoluzione anche su quel palco altolocato, nel cuore della piramide di vetro di cui si parlava all’inizio. Zach De La Rocha preferì fare altro, quel giorno. Forse stufo da un pezzo di essere stato l’utile idiota gestito e finanziato dal Sistema di cui predicava la fine. Non so invece davvero chi sia salito sul palco a rappresentare i MC5, forse Morello ha fatto tutto da solo, conferendo e ricevendo il premio, visto che, ahimè, in vita non è rimasto più nessuno, dei cinque di Detroit. Wayne Kramer l’abbiamo pianto pochi mesi fa. Dennis Thompson, il batterista, invece no. Deceduto poco dopo il suo ex chitarrista, non riuscii a mettere insieme due righe decenti, visto il triste accanimento del Destino che ci avrebbe portato a parlare di una band straordinaria così a stretto giro, due volte, ma per due lutti. R.I.P. anche te, comunque, Dennis. Dopo i decessi di Rob Tyner (1991) e di Fred “Sonic” Smith (1994), Wayne Kramer aveva più volte provato a ravvivare il fuoco dei MC5 con concerti ed esibizioni assieme a musicisti più giovani e dal curriculum solido: Matt Cameron, Kim Thayl, Billy Gould, Doug Pinnick, Gilby Clarke, Richard Manitoba. Potendo, coinvolgeva ancora gli altri due superstiti, Michael Davis (che poi ci ha lasciati nel 2012) e appunto Thompson. Nel 2001 aveva addirittura promosso un concerto speciale, sponsorizzato dalla Levi’s, quella dei jeans, cui contribuirono persino Ian Astbury (The Cult), Dave Vanian (The Damned) e Lemmy. Nel frattempo stringeva amicizia con Morello, cintura nera di riff monocorde di pentatonica e suonetti idioti, che era da un pezzo che saccheggiava le idee delle due band sorelle di Detroit, fine anni ’60.

Non so comunque cosa ne pensiate voi del riportare a forza su palco un nome tanto significativo, sebbene in assenza di tre dei suoi componenti storici, insostituibili in assoluto per suono e immagine. Più rimarchevole sicuramente l’attivismo extra musicale di Kramer, ex tossicodipendente ed ex carcerato, che ha promosso spesso anche iniziative per i più deboli e sfortunati. Sarà stato questo, oltre alla portata rivoluzionaria (musicalmente e forse in parte anche politicamente) dei primi tre dischi dei MC5, ad aver spinto Morello a spendersi così tanto per quello che ne restava, dei MC5. Lui che è sempre pronto a battersi per i deboli su qualsiasi campo di battaglia si stia combattendo la lotta di classe, oggigiorno. Non più quindi solo sugli album finanziati dalle grandi corporation multinazionali, ma anche sulle riviste lobbiste di classic rock che campano sulla pubblicità acquistata dalla corporation di cui sopra e, soprattutto, sui palchi delle sale da cerimonia delle piramidi di vetro contemporanee.
Comunque, a quei livelli, le cose non credo capitino per coincidenza e caso. Magari semmai sono pianificate, con dei cronoprogrammi ben monitorati da manager che mirano a massimizzare qualsiasi briciola di profitto. Così, nella settimana stessa dell’ingresso degli MC5 nella (serie B della) Rock’n’Roll Hall of Fame, esce anche Heavy Lifting, che sarebbe il nuovo album “degli MC5”, ed esce su EarMUSIC, succursale EDEL, che oggi ha sotto contratto un’armata Brancaleone con dentro Deep Purple, Blackmore’s Night, le Babymetal, Gamma Ray e altre glorie in pre-pensionamento male assortite. Wikipedia riporta un fatturato complessivo del gruppo Edel per il 2019/2020 di duecento milioni di dollari e rotti. Non esattamente un’etichetta indipendente, ma manco la Universal Music, la Sony o la Warner. Mi viene da dire che, comunque, se qualche spicciolo c’è da farcelo oggi ricordando gli MC5, con questo quarto d’ora scarso di notorietà arretrata, non sarà con la “loro” nuova musica, ma magari con le ristampe in vinile deluxe 180 g che, ci scommetto, la Warner sta valutando se tirare fuori, visto che il vecchio catalogo dei cinque di Detroit per la gloriosa Atlantic ora appartiene alla multinazionale. Ma quindi ben venga comunque un Heavy Lifting a far ricordare di loro a qualche borghese che ha cento dollari da spendere in vinile e non sa cosa comprare, perché ascolta il rock classico diffuso dai media classici. Ah, e se dovesse servire qualcuno per scrivere le note per le ristampe, un candidato ideale c’è già.

Mani in alto, capitalismo!
Ma non abbiamo ancora parlato di Heavy Lifting, salvo mettere delle virgolette un po’ perfide. In realtà se ne parlava già da un po’, del disco, quando Kramer era ancora in vita, ma onestamente pensavo che il suo decesso avesse chiuso il discorso. Invece chiaramente lo spettacolo deve continuare e soprattutto il flusso del denaro. Certo, a conti fatti, Kramer molto probabilmente avrebbe voluto così, avendo creduto talmente tanto nella storia della sua vecchia ragione sociale da provare a riportarla in auge. Poi certo, al netto della simpatia e del rispetto per l’uomo e per la leggenda, se poi ci si volesse occupare realmente, almeno un po’, dell’album, converrebbe rimanere lucidi e valutarlo per quello che è. Ovvero il disco di un vecchio rocker decaduto che aveva voglia di riscaldare ancora le valvole degli ampli (e faceva bene) e che lo faceva al meglio che potesse. Però, avesse portato stampato in copertina il suo nome o una combinazione diversa (qualcosa tipo “Motor City Kramer” o fate voi, di esempi simili ce n’è da sbizzarrirsi), non se lo sarebbe probabilmente filato quasi nessuno, o comunque in pochi. E quei pochi sarebbero stati magari più obiettivi. Ora, spacciarlo come il terzo album degli MC5 (o quarto, contandoci pure Kick Out The Jams che è un live) potrebbe non essere una scelta condivisibile. Poi, chiaramente, si saranno già espressi degli avvocati nel valutare la cosa. Magari chi avrebbe potuto obiettare non c’era già più, quindi tutto ok. E sicuro che Kramer aveva sicuro più diritto di usare quella ragione sociale di me o, che so, di Tom Morello, per cui forse non è il caso di insistere su questo punto. Certo che tanta gente e tanti media, si sa come funziona, potrebbero essere meno obiettivi solo in virtù del nome sulla confezione, specie quelli che nel sistema che ha architettato il carrozzone di cui parliamo oggi ci devono galleggiare.

Venendo alla musica, che in fondo siam sempre qua per questo, il disco parte con la traccia omonima e dall’impronta ingombrante data dalla collaborazione con (indovinate un po’?) Tom Morello, che deve aver fiutato l’occasione di seppellire il Capitalismo una volta per tutte con questa canzone. O magari voleva solo farsi una jam con un vecchio amico, chi siamo noi per giudicare. Certo che l’ex RATM sembra sempre più un personaggio in cerca d’autore, o un musicista in cerca di un gruppo. Per il resto non vale la pena essere troppo cinici nei confronti di un disco in cui Kramer deve aver creduto tantissimo, per cui magari è meglio limitarsi a sintetizzare giudizio e chiarire come si tratti di un disco per metà di rock’n’roll, tra il leggerino ed il banalotto, per metà permeato di r’n’b e funk-funkadelico, non molto più centrato. Si parlava di un supergruppo, mesi fa, ma pure Slash, Vernon Reid e William “prezzemolino” DuVall si limitano ad apparire su un pezzo al massimo e a timbrare il cartellino. Non ci fossero cambierebbe poco. Attenzione: tra gli ospiti di questi “MC5” c’è Dennis Thompson, il solo altro sopravvissuto, all’epoca delle registrazioni, della formidabile formazione storica. E solamente in due brani. Questo dato riassume bene la faccenda. Verso la fine della scaletta c’è pure un brano di dance elettronica. Chi vi scrive non possiede le competenze per capire come si classifichi un brano così, che comunque pare tirato un po’ via, ma sappiamo come Detroit sia famosa anche per la musica house e techno (ce l’hanno insegnato i Dirtbombs con Party Store). Quindi magari si tratta di un ammiccamento consapevole.

Insomma, visto il risultato effettivamente arrivato sul piatto, si poteva forse convenire sul fatto che non fosse il caso di spendere così tante parole su questo disco. E questo nonostante qualcuno in giro riporti come sia l’uscita che può finalmente far giustizia per una band criminalmente sottovalutata. Ci vuole un po’ di fantasia, però, a vederla così. Perché invece l’impressione (è forse qualcosa più che l’impressione) che lascia tutta la faccenda ha poco a che vedere con la musica “viva”, detto con tutto il rispetto per chi non c’è più. Un vecchio musicista convinto (da sé, forse, ma probabilmente anche da altri) a dare il nome di una vecchia ragione sociale collettiva ad un suo sfogo solista perché, sicuro, fa più notizia. Un altro, un po’ più giovane ma invecchiato tantissimo e forse un po’ peggio, che si aggira sui palcoscenici in cerca di un fascio (sic) di luce che lo illumini, che magari pensa che sia il suo lustro a donare un’ultima possibilità di fama ad una vecchia gloria del passato, ma è più facile che sia il contrario. Un intero carrozzone mediatico, finanziario, che del rock’n’roll prende il nome e non certo l’anima anarchica e libertaria, che si nutre di mummie accumulate nei meandri di una piramide di vetro post moderna. A finirci in mezzo ad un guazzabuglio del genere sono stati gli MC5, questa volta. A me dispiace. Non credo fosse una vetrina di cimeli in un museo il riconoscimento che meritavano dal 1971. (Lorenzo Centini)





Amen. Morello sempre più imbarazzante, fra lui e cariatidi da manifestazione studentesca di 1° superiore scadute da un quarto di secolo come che ne so, gli Ska-P ormai non c’è davvero più differenza.
Per gli MC5, invece, dispiace sempre. Mi auguro sempre che prima o poi, a forza di ripeterlo, il pubblico generalista (quello delle Virginradio e dei concerti a 200 euro) si accorga che qualsiasi forma di rock stradaiolo venuto dopo il 1971 ha saccheggiato a man bassa il quintetto di Detroit. Non che serva a molto, ormai, ma un riconoscimento postumo è pur sempre meglio di nessun riconoscimento.
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