Metallica: Some Kind of Monster dopo vent’anni mette ancora a disagio

Some Kind of Monster è il titolo del quarto singolo estratto dal vituperato St. Anger, sul quale condivido il pensiero dello stimato collega che se ne occupò al tempo: un lavoro che nonostante le sue palesi debolezze e cappellate rappresenta comunque l’ultimo tentativo di non voler ripetere a tutti costi la formula standard. Un qualcosa al quale anche i Metallica si arrenderanno in tutto e per tutto da lì a poco. Il brano in sé non è manco dei peggiori, imbrocca un bel riffone pesante all’inizio, sembra poter evolvere in qualcosa di buono ma poi, come molte delle poche idee discrete di quell’album, si va a disfare da qualche parte tra una batteria di pentole inox e il fustino del Dixan. Il CD singolo (che inspiegabilmente, come molte altre cose uscite dopo il 1991, ho anche in formato fisico) viene pubblicato sotto forma di EP con le due versioni del pezzo (l’originale di oltre otto minuti e la versione edit appena più digeribile) e ben sei tracce dal vivo da un repertorio che, non guardando oltre il 1986, rende impietoso il confronto con l’uscita che si vorrebbe effettivamente promuovere. Il dischetto in questione in realtà serve a fare da traino e compendio al documentario omonimo che esce in contemporanea. Al contrario del brano, il film firmato dalla coppia Berlinger/Sinofsky, autori tra le altre cose di una inchiesta-trilogia sul caso dei West Memphis Three (materia per il Messicano), è tutt’altro che trascurabile e ve ne consiglio la visione a prescindere da quali possano essere le vostre opinioni sui Metallica degli ultimi venti o trenta anni. Tra i primi a comprendere la reale importanza di questi prodotti correlati, negli anni i Metallica hanno fatto uscire una vagonata di questi VHS/DVDfilm o presunti tali, cofanetti ecc. Tra questi vale la pena ricordare il pionieristico documentario One year and a half in the life of Metallica, che si poneva ai limiti del reality show in un periodo in cui questi format erano davvero agli albori (qualcuno ricorderà The Real World, proto-reality che vedeva la sua prima messa in onda su MTV proprio in quel periodo). Metallica: Some Kind of Monster è idealmente il seguito del doppio documentario del 1991, una continuità che viene sottolineata dagli autori stessi nel riproporne vari spezzoni in una ipotetica sovrapposizione. Se i due film di One Year documentavano la registrazione del black album e la conseguente transizione a superstar internazionali, qui ritroviamo dei miliardari coi tatuaggi oramai abituati ad uno stile di vita (e conseguente stile di morte) lontano anni luce da qualsivoglia idea remota di normalità. Penetrando quotidianità e dinamiche di persone che hanno perso qualsiasi contatto con il mondo reale, per di più alle prese con un periodo sicuramente complesso (l’abbandono di Newsted), il film ha il merito principale di restituire ai tre superstiti quell’elemento di autenticità che era una delle caratteristiche fondanti della band stessa. Perché, al di fuori della qualità dei dischi della prima ora, una delle forze del gruppo era stata la loro capacità di essere percepiti come qualcosa di vero, una band formata da primus inter pares la cui immagine, credibilità e mitologia si poggiava anche sul fatto di essere un gruppo di appassionati usciti fuori dalla serranda di un garage. Ovvio che l’autenticità recuperata che vanno qui mostrando non sia quella di fieri ed indomiti cavalieri del metallo pesante (avevamo comunque smesso di crederci da un pezzo), ma, proprio per questo suo rimarcare la differenza tra il passato ed il presente, Some Kind of Monster è la cosa più onesta che ci abbiano regalato da tempo immemore. I protagonisti che qui ritroviamo sono degli ex metallari in crisi di mezz’età privi di qualsiasi eccitazione, persone per le quali anche fare una vita che è la materia stessa dei sogni è oramai divenuta una stanca routine. Il ritratto globale è talmente imbarazzante che stupisce quasi che abbiano dato il benestare perché una cosa del genere venisse effettivamente resa pubblica. Perché sì, alla fine c’è una conclusione che ha un senso posticcio di redenzione per un qualche tipo di unità ritrovata; ma tutto quello che si vede in mezzo è roba che generalmente uno preferirebbe restasse privata. Insomma, se di autenticità sembravano non possederne più un briciolo, qui forse ne mostrano anche troppa. È uno spettacolo impietoso in cui non ci sono vincitori né vinti, e che ci mostra in maniera brutalmente onesta come le relazioni di qualsiasi tipo siano una materia complessa in cui nessuno ha mai completamente ragione o torto. Per un motivo o un altro tutti ne escono abbastanza male. Forse il solo Hammett risulta leggermente meglio, ma solo in virtù di una pacifica accettazione per un ruolo che lo vede da sempre in secondo piano e quindi lo mette in posizione più defilata nelle dinamiche di potere fra i due principali proprietari del marchio. Il signor Lars Ulrich per larghe parti del documentario sembra una delle persone più stupide sul pianeta Terra, peraltro dando l’impressione che le sue ridicole scenate siano cosi eccessive proprio per la consapevolezza di essere filmato. Vedi la lagna preoccupata allo show di presentazione degli Echobrain (come se questi potessero davvero rappresentare la concorrenza o una minaccia alla popolarità del suo gruppo). Insomma, la recita a favor di camera per voler apparire come un coglione totale. James Hetfield dal canto suo non ne esce molto meglio, non parlo tanto dell’egocentrismo di girare per strada con un dragster o di fare viaggi per ammazzare orsi (scelte opinabili, ma alla fine ognuno occupa il tempo come preferisce), quanto di un apatico alcolizzato che, dopo essersi dato una ripulita, si lancia in anatemi sulla vita da rockstar che viene definita prevedibile e scontata (nello specifico si lamenta di hangover perenne, camere di albergo di città che non conosce e letti condivisi con donne sempre diverse). Come tutti quelli rinati con un buco del culo nuovo, Papa Het inizia ad imporre buone abitudini e a fare predicozzi da mitomane tese a magnificare le vere gioie della vita familiare come il saggio di danza della figlia o qualche altra banalità del genere. Poco ci manca solo che ci venga raccontare la bellezza di fare lo spesone settimanale al centro commerciale il sabato pomeriggio. E quindi riesce nel miracolo di far sembrare anche Lars persona dotata di giudizio nel momento in cui si rifiuta di dare giustificazioni per aver osato ascoltare una registrazione dopo le quattro del pomeriggio. Per la verità il batterista dai pochi capelli ossigenati (ma perché?) sembra anche il più sveglio e risoluto nel momento in cui si tratta di dover decidere che fare dello psicologo, che come tutti gli sciacalli che sembrano girare intorno alla band pare volersi assicurare un lavoro a vita, considerando il proprio compito mai ultimato e annunciando “piani di crescita personale” per tutti i membri coinvolti.
lo psicologo

La salvezza del metal è nelle mani quest’uomo

Ah già, lo psicologo. Non ne avevamo ancora parlato. Quella è notoriamente la cosa più grossa che esce dal documentario perché ovviamente è davvero difficile trovare qualcosa di più ridicolo del gruppo metal con lo psicologo. Ma tant’è, ed è proprio grazie all’apporto del sig. Phil Towle che il film ci regala uno dei momenti più cringe (come dite voi giovani) dell’intera storia del cinema: la carrambata di pacificazione tra Mustaine e Ulrich. Se come si diceva non ne esce bene nessuno, al roscio spetta però la palma di quello che ne esce peggio di tutti. Dave Mustaine, l’iracondo pazzo intrattabile alcolista eroinomane, che si mette a piagnucolare come una bimba per la mancanza del suo “amichetto danese”, perché qualcuno per strada gli urla il nome del suo vecchio gruppo, perché si sente un eterno secondo. Come se fosse stato condannato a chissà che miserabile vita di merda. Pochi intensi minuti che potrebbero essere un motivo sufficiente perché anche il più fanatico dei droogies possa bruciare in piazza l’intera discografia dei Megadeth. Sì signori, questo è uno dei nostri miti adolescenziali, quello che ha scritto In my Darkest Hour e Symphony of Destruction. Fatevene e facciamocene tutti una ragione. skom4 Ma i momenti di imbarazzo sono davvero troppi: le frasi motivazionali sulle pareti dello studio, il mission statement di gruppo, Lars ubriaco che vende all’asta la sua personale collezione di Basquiat o la famigerata discussione sugli assoli di chitarra. Un film che è una miniera infinita dell’orrore. Detto questo, mostrare l’osceno non è l’unico merito di un documentario che ci offre anche molte occasioni per comprendere le difficoltà di cosa possa voler dire gestire un bestione mostruoso come una band di queste proporzioni. Una quotidianità fatta di adulatori vari, gente che mette bocca su tutto (Torben Ulrich esattamente a che titolo parla?) e poi la quantità di soldi inimmaginabile che ci gira intorno. Significativa da questo punto di vista tutta la parte delle audizioni per il nuovo bassista, ruolo per il quale troviamo a candidarsi anche alcuni musicisti di quelli che reputiamo intoccabili come Scott Reeder o Pepper Keenan (qui disposto anche a farsi retrocedere al basso), gente che nonostante discografie pressoché inattaccabili si mette a fare la fila davanti alla possibilità di entrare in un’industria del genere. Perché (giustamente) ‘sti gran cazzi dell’arte quando puoi vincere la lotteria. E forse allora appare più chiaro come mai una cosa come quella dello psicologo possa da qualcuno essere stata considerata una buona idea. Perché una multinazionale del genere non può fallire, deve funzionare per forza. A qualsiasi costo. Ci sono troppi soldi di mezzo, in troppi ci mangiano sopra e anche molto bene. Alla fine è stato proprio questo successo immenso quello che ha determinato e continua ad essere la vera maledizione dei Metallica. (Stefano Greco)

5 commenti

  • Avatar di EXO

    La delusione adolescenziale, il triste momento in cui ho capito che i miei artisti preferiti dell’epoca non erano le brave persone che pensavo anche se avevano scritto canzoni che mi hanno aiutato nei momenti più bui, ho capito che entrarti nel cuore con la musica non sempre corrisponde ad essere persone di buon cuore. Me lo hanno sbattuto in faccia dai primi fotogrammi in cui dicono che Hetfield va a caccia ad uccidere animali per divertimento, l’ unico che si salva è Kirk che è il classico bravo ragazzo taciturno da sempre messo in disparte ed è evidente anche nel documentario come a volte non venga calcolato di striscio dai due capibanda

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    • Avatar di magus79

      quando un bambino capisce che gli adulti non sono perfetti diventa un adolescente, quando riesce a perdonarli diventa un uomo, quando riesce a perdonare se stesso diventa un saggio

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  • Avatar di weareblind

    Mah, forse troppa attenzione. Un prodotto infine sciapo.

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  • Avatar di Maurizio

    Troppe disquisizioni per un lavoro (…) inqualificabile. Davvero il fondo del barile. Per fortuna poi un poco sono risaliti dal pozzo,ma fare meglio di così non era difficile.

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  • Avatar di Sam

    Tristezza infinita per dei personaggi che sono passati da incazzati macinatori di riff a vittime inconsapevoli del loro stesso smisurato ego e sfruttati a piene mani da sciacalli pronti ad avventarsi sul cadavere fumante di una band il cui nome a confronto con la loro musica e la loro immagine attuali suona come un ossimoro.In pieno stile americano, sempre più decadente e allo sbando, la band diventata una holding si dedica solo al dollaro perdendo ogni contatto con la realtà e qualsiasi arrampicatore sociale che si rispetti si infila nelle crepe della demenza che ne viene generata.
    “Era meglio morire da piccoli con i peli del culo a batuffoli che morire da grandi soldati con i peli del culo bruciati”

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