In medio stat virtus: VITRIOL – Suffer & Become

Scoprii i Vitriol qualche anno fa  a un concerto allo Slaughter Club, locale nella zona industriale di Paderno Dugnano, alla periferia Nord di Milano. In quel periodo stavano girando in tour accompagnando gli Hate Eternal e i Nile, che di lì a poco avrebbero pubblicato il loro Vile Nilotic Rites. Passano quasi cinque anni (e pensarci mi fa male) e di loro mi ero totalmente scordato, finché, controllando su un sito le uscite del periodo, vedo il loro nome, che mi riporta alla mente le ottime impressioni avute all’epoca.

Se il fatto che accompagnassero Hate Eternal e Nile non vi fosse bastato a intuire le sonorità dei Vitriol, allora vi specifico che si tratta di un gruppo americano che suona un death metal molto tecnico e brutale – per quanto possa avere senso questa definizione – quasi del tutto riconducibile alla scuola death metal statunitense moderna, dove le influenze deathcore e metalcore sono spesso presenti. Quello che mi aveva colpito all’epoca era la pulizia della loro esecuzione dal vivo, cosa per niente scontata in gruppi come questi. E, ascoltando To Bathe from the Throat of Cowardice, loro debutto sulla lunga distanza, si poteva anche notare una certa peculiarità delle sonorità, che a tratti integravano quella follia e quell’assenza di struttura più tipica dei The Dillinger Escape Plan e dei migliori Converge – con le dovute proporzioni, ovviamente, considerando il paragone altisonante; altri due gruppi statunitensi, probabilmente non a caso. Il tutto con una pulizia più vicina a quella del death metal moderno, senza le esagerazioni del death metal moderno.

Ero quindi curioso di sentire questo Suffer & Become, che tuttavia dal punto di vista del coraggio della proposta rappresenta un netto passo indietro. Anche questo album può risultare un coacervo di influenze che pescano a piene mani da gruppi moderni ben più famosi. Sin dal primo ascolto di Shame and its Afterbirth, uno dei singoli promozionali estratti prima dell’uscita e prima traccia dell’album, i nomi che vengono subito alla mente sono quelli dei Decapitated più claustrofobici e compressi di Organic Hallucinosis – che io, personalmente, non disprezzo affatto – e che in realtà venivano richiamati anche nel precedente album, soprattutto nell’impostazione vocale dei cantanti. Oppure anche gli ormai onnipresenti Behemoth, con quei lampi di epicità ampollosa e pomposa con voci in growl e scream sovrapposte. Si possono anche notare, in generale, alcune aperture più melodiche, ripescate dall’esordio sotto nome Those Who Lie Beneath.

Questa ultima uscita del gruppo di Portland, quindi, non impressiona particolarmente, nonostante possa comunque dare qualche soddisfazione agli appassionati del genere. L’introduzione della traccia Survival’s Careening Inertia lascia intravedere qualche soluzione più variegata che mi ha ricordato quei vuoti che ho ritrovato volentieri in Black Medium Current – e che in realtà potrebbero essere considerati un marchio di fabbrica dei Dødheimsgard. Queste però non sono state sfruttate a dovere e rappresentano il principale rimpianto di un album che forse poteva essere un po’ più audace – e di un gruppo che, volendo, ha gli strumenti per esserlo. (Edoardo)

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