Recuperone black metal 2023 – prima parte

DPRIZE – Под Крылом Земли

Non li avevo mai sentiti nominare prima, ma i DPrize, russi dalla gelida e remota Novosibirsk, sono giunti già al quarto album. Gli piace scrivere musica molto melodica, rifacendosi al death metal armonico svedese/scandinavo, con qualche sfumatura black metal giusto per ampliare la gamma dei possibili fan. Scrivono brani molto dinamici, non disdegnano di lanciarsi a velocità considerevoli e inoltre non si può negare loro il merito di suonare in modo ben più che professionale, cosa che produzione e registrazione evidenziano egregiamente. Poi c’è il carico da undici, ovvero l’utilizzo in certi frangenti anche di una balalaika, strumento che definire esotico nel contesto di un disco metal è fargli torto, associata ad arrangiamenti curati, quasi sofisticati e molto gradevoli. Tastiere non invadenti abbelliscono i pezzi anche se, essenzialmente, ciò che detta la linea sono le trame di chitarra, come sano heavy metal comanda. Под Крылом Земли è un disco piacevole, una quarantina di minuti spensierati e sano scapocciamento. A me piace parecchio, complimenti a loro.

OERHEKS – Valkengebed

Terzo EP per i belgi Oerheks, di cui ho già parlato. Occhio che su di loro sta montando un hype notevole, non è difficile che i loro vinili tra breve si scambieranno a cifre importanti. Si parla sempre di un black atmosferico piuttosto grezzo, a tratti sconfinante nel raw black. In questo Valkengebed troviamo due soli brani, benché molto lunghi (11 minuti e mezzo e 15). Frenetici e turbinosi, i suddetti pezzi sono tesissimi e mettono addosso nervosismo e ostilità, ma per grazia di Bael gli arrangiamenti di tastiera tendono ad addolcire un pochino la loro furia. Nel missaggio la batteria è assai penalizzata dal muro sonoro generato da chitarre e tastiere, venendo tenuta lontana all’orizzonte, e anche la voce è tutto fuorché in primo piano. Sembrerebbe quasi che abbiano concepito l’EP come strumentale (ovviamente non è così), perché appare evidente che qui si è puntato tutto sui riff. E che riff! Coinvolgenti, trascinanti, melodici quel che serve, gli Oerheks sono dei fottuti fuoriclasse. Sono malinconici, sono tardo-autunnali, sono grezzi gioielli di ossidiana. Del resto, i ragazzi hanno collaborato con i maestri del depressive black, gli Hypothermia, e nulla accade per caso. Il disco è stupendo, puri brividi. Lasciate che vi abbracci e vi porti in altri mondi.

SORT SIND – I Skyggen af Livet

Altro giro, altro regalo, altro gioiello. I Sort Sind sono danesi e I Skyggen Af Livet è il loro album d’esordio, a parte un EP di due brani, comunque non presenti in questo capitolo, pubblicato qualche tempo prima. Suonano black metal classico, tendente al (molto) melodico, di tipica scuola scandinava con i Dissection fissi in testa ad indicare la via. Non ne costituiscono una sterile copia priva di personalità, non temete: i pezzi sono costruiti in modo magistrale e i ragazzi sfoggiano una tecnica strumentale considerevole. Preferiscono evitare di buttarla sulla velocità punto e basta, anche se non è che vi rinunciano categoricamente; più in generale preferiscono tempi poderosi e cadenzati, sui quali ricamano arrangiamenti maestosi e marziali. Ascoltatevi brani come Fortærer, Tomhed o Sortsyn ad esempio: vi troverete curatissimi intrecci di chitarre armonizzate, tipici di gruppi di caratura superiore. Già così si percepisce che la strada intrapresa è quella giusta, ma credo che in futuro riusciranno ad andare anche oltre. Sorpresa piacevolissima, se li ascolterete ci ritornerete sopra spesso.

SADNESS/DISMALIMERENCE – Resplendence (split CD)

Sadness è il progetto post-rock/post-metal di Thet Alef, aka mister Trhä, che anche sotto questo vessillo ha pubblicato quest’anno un’alluvione di dischi. Per quanto io personalmente consideri dispersivo questo modo di agire, non posso esimermi dall’ammettere che un disco schifoso che sia uno non riesce proprio a pubblicarlo. Può piacere o meno la sua proposta, ma dal punto di vista qualitativo Thet Alef è arduamente criticabile. Details in Numbercolor è molto punkettona come approccio anche se dura 12 minuti, e ha queste voci strane che ricordano il cantato di un coro infantile che boh, che gli dici? Provo a rivangare la memoria chiedendomi dove, in un disco della galassia heavy metal, ho mai sentito qualcosa di simile e non trovo alcuna risposta. Hystrionic and Granted è più canonica e formalmente più aggressiva, nonostante in definitiva non si discosti molto dal brano che la precede: magari è più grezza, con lo screaming che prevale, ma è comunque fondata su melodie introspettive ed arrangiamenti inusuali. Verso la fine si avventura persino nel rumorismo e nei suoni distorti artificialmente come se la registrazione fosse difettosa. Questo tizio scrive 50 dischi all’anno e non ne sbaglia uno, è questo il problema – sempre ammesso che sia un problema. Invece i Dismalimerence sono un gruppo atmospheric/post-black americano, meno sperimentale ma ugualmente efficace. Conosciuti già con il full di debutto Tome I e con la partecipazione al 4-way split con Nurez, Olim e The Wolf’s Garden (CD notevolissimo a mio parere, recuperatelo se vi capita), qui propongono una suite di dieci minuti divisa in due capitoli, Grief and its Due. Si fa grande attenzione alle melodie e agli arrangiamenti maestosi, in un brano eclettico che principalmente è costruito per resistere alle alte velocità. È un gruppo che ha buone idee e, avendone le inconfutabili capacità, sa come svilupparle.

MOONSCAR – Withered Sacred Soils

Ritorna la one-woman band greca Moonscar, la risposta ai defunti svedesi Misteltein i quali, dopo il loro capolavoro Rape in Rapture, si sarebbero sognati di scrivere due dischi come quelli pubblicati dalla fanciulla ellenica. Vero che a suonare così gliel’hanno insegnato loro, ma l’allieva ha superato i maestri. Black melodico con una spruzzata di death tecnico scandinavo, armonie da manuale sempre tracciate da tastiere gradevolissime mai eccessivamente invadenti. Chitarroni che fanno scapocciare, arrangiamenti strabilianti e curatissimi. Non so proprio cosa si possa chiedere di più: Withered Sacred Soils contiene sei pezzi (per 35 minuti di musica in totale) senza un difetto che sia uno. Tanti complimenti a miss Absence, che si conferma essere un talento mica da ridere. Se riuscite a rimanere fermi mentre viene riprodotta Seance avvertitemi, chiamo il 112.

ΣARK – Inumbris

I Σark sono greci, ateniesi per meglio specificare, e Inumbris è il loro terzo album. Il che implica una buona dose di elogi a priori. Meritati? Meritatissimi! Suonano black metal atmosferico. Lento. Ma davvero si tratta solo di black metal? Sì, ma anche no. C’è molto occult black/death metal, e non sono aliene nemmeno atmosfere religious. C’è un tipo che li accosta agli Svartidaudi e non ha affatto torto. Non mi ricordo se vi ho già parlato dei dischi precedenti, ma non importa: se l’ho fatto ne ho di certo parlato bene. Our Moments has Arrived apre il disco ed è un calcio nei coglioni: sembra sempre sul punto di esplodere e non lo fa, ti stritola le palle lentamente, inesorabilmente; scava come la goccia fa con la pietra. È strano, è dissonante, è malsano. Come dicevo poc’anzi c’è parecchio death metal in questi solchi, c’è melodia sì ma non troppa o troppo evidente, la resa sonora è cupissima, oscurissima, occulta. Come spesso accade nelle produzioni odierne, la voce viene tenuta in secondo piano; sono le chitarre il basso e la batteria ad occupare la scena, disponendone a piacimento. La voce tra l’altro è raramente in screaming, ricordando molto di più l’impostazione dei vecchi Necromantia e Varathron (giusto per ribadire la loro ellenicità). Inumbris è piuttosto lungo, nove brani per 55 minuti. Tempo assolutamente non sprecato, né eccessivo, tra divagazioni religious (A Double-edged Sword, I Wonder and then I don’t), richiami ai cari vecchi tempi della scena black greca, tastiere sataniche e tutto quanto può far felice un ascoltatore di black metal (attualizzato). Non esiste in versione fisica, mannaggia a chi dico io. Sono dei fenomeni anche questi, gente. Relentless Fear è un capolavoro, ma quale di queste 8 tracce (più outro) non lo è? Dio vi benedica…

RAAT – Secret Light

Nuovo episodio discografico per gli indiani Raat. Si tratta di tre brani inclusi in quello che a loro dire è un EP, anche se in realtà dura poco meno di mezz’ora. Parte subito bello spedito, tanto da farci esclamare “alla faccia del post-black metal atmosferico”, poi in meno di un minuto cambia impostazione tre volte. Diviene maestoso, magniloquente, imperioso ancorché sempre melodico e dimesso, avventurandosi spesso in sfuriate fast black metal di pura ispirazione scandinava, il che per un musicista indiano lascia abbastanza meravigliati. Anche in questo caso si pone grande attenzione alla melodia, la voce in screaming estremo viene tenuta in secondo piano nel mixaggio e ci sono stacchi particolari ed insoliti: dopo fasi tempestose spaccatutto si arriva quasi al silenzio assoluto, come fossero pause di riflessione. Ad Astra è lunghissima – quasi 12 minuti – ed è probabilmente l’apice di tutto il disco. Va da sé che tutto Secret Light è più che valido, altrimenti avanzerei la pena di parlarvene, vista tutta la musica di alto livello che esce. Un altro ottimo capitolo si aggiunge ad una discografia di dimensioni già imponenti (tre full e undici EP); per ora è disponibile solo in digitale, ma il CD è già stato pianificato dalla nostrana Flowing Downward.

SËHT – Lëyl Efën

Sempre rimanendo in India, uno dei più credibili discepoli dei Trhä ritorna a deliziarci con nuova musica. In un solo brano che dura oltre 29 minuti c’è bisogno di scrivere che al suo interno troveremo di tutto? Tastiere in stile Lustre, tempi rallentati al limite dell’agonia, tecnicismi di chitarra quasi progressive metal e momenti più intimisti, crepuscolari, quasi lounge music. Ciò precisato stiamo comunque parlando di un progetto raw black metal: produzione e scelta dei suoni sono minimali, le voci seppellite in lontananza, riverberate, talvolta indistinguibili. E più in growling che in screaming, giusto per gradire. Molta della musica qui presente è fortemente radicata nel prog rock anni ’70, quello più spezzato, contorto e straniante, soprattutto per quanto riguarda le tastiere che sembrano catapultarti indietro nel tempo di almeno 50 anni. Il disco non si avventura mai in velocità impossibili o in contesti particolarmente estremi, e ad incasinare ulteriormente il tutto ci sono anche tracce di musica locale tipica della nazione di provenienza dei Sëht. Questo è Lëyl Efën, una raw/folk black metal opera dai suoni grezzissimi e dalle atmosfere che sembrano provenire da profondità innaturali. Ci sta. Ma l’ascolto non è semplicissimo né leggero, e bisogna dedicargli il giusto tempo.

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