(Non) avere vent’anni: UNIDA – The Great Divide

El Coyote, For the Working Man, The Great Divide. Tre nomi (tre working title) per un disco che poi non ha mai avuto una data di uscita vera. Un disco che non è mai esistito ufficialmente, per cui è pure difficile stabilirne il compleanno. Metal Archives lo fissa comunque al 2003, mese imprecisato, per quanto i primi mp3 già circolavano (registrazioni chiuse a maggio 2001). Poi i primi CD-R e i bootleg illegali negli anni successivi. Trovai un vinile in vendita al mercatino del Circolo degli Artisti, una volta. Mi mangio le mani al pensiero di non averlo fatto mio, quel giorno. Perché questo disco non esiste, non esiste più da nessuna parte, nemmeno su qualche piattaforma streaming. Certo, si trova su YouTube o in qualche altra modalità al limite del lecito. Non avete altra scelta per godervelo. Purtroppo col suono determinato dalla compressione balorda dei file che sono stati fatti uscire in qualche modo dagli uffici della Def Jam. Un vero e proprio leek, quando ancora non si usavano certe parole. Se vi organizzaste comunque per sentirlo sul vostro stereo (oggi si può tutto), sicuro non riuscireste a godervi in pieno la produzione di George Drakoulias. Che aveva prodotto i Black Crowes, non certo i Kyuss. Eppure fidatevi che, anche se gli MP3 di cui disponiamo hanno il suono tipo 128Kpbs di bitrate, si capisce benissimo che The Great Divide avrebbe suonato come un disco della Madonna. Non fosse rimasto un fantasma.

Ricordatevi quel momento, il Garcia post-Kyuss, dopo aver sbandato già con gli Slo Burn (che avrebbero dovuto diventare grandissimi, se il mondo avesse girato per il verso giusto). Incrocia Arthur Seay e Mike Cancino e mette insieme un gruppo incendiario, devastante, a livelli di intensità pazzeschi. Le doti dei tre permetterebbero il salto di qualità, se ne devono essere resi conto dopo l’uscita dell’esordio, il pazzesco Coping with the Urban Coyote (che già era un disco da isola deserta), affossato poi dal fallimento della Man’s Ruin. A bordo allora niente meno che Scott Reader al basso, a completare il quartetto. L’ala protettiva (e i soldi) di Rick Rubin. Pareva fatta. E invece ancora una volta la sfiga balorda che affossa i migliori. Qualcosa non va. Beghe contrattuali, avvocati e un disco registrato buttato nel cesso. Una band immensa che arranca, poi smette di esistere. Poi ogni tanto riaffiora, non si dà vinta. Ma il treno purtroppo è passato. Il momento in cui gli Unida avrebbero dovuto diventare quello che meritavano di diventare. Meritavano, anzi meritano, di essere ricordati come la band hard rock più esaltante dopo la fine degli anni ’70 (se esagero, mica di molto). E The Working Man come un disco immenso, epocale, devastante. Da far mandare a memoria a qualsiasi ragazzino stia iniziando a mettersi a suonare la chitarra, la batteria o cantare. Un disco che bisognerebbe costringere certa gente ad ascoltarlo perché finalmente rinsavisca.

In verità vi dico: verrà il giorno della pubblicazione di The Great Divide. Quel giorno le fondamenta del Tempio dei falsi rocker tremeranno.

Perché Arthur Seay è il chitarrista più caldo e fantastico che sia uscito dalla scena stoner. Qui abbassa (lievemente) la manopola del gain rispetto al parossismo dell’esordio. Suona con un gusto perfetto, armonia, melodia, pezza. Porta tutta la band a un livello “superiore” rispetto all’underground. Questo era infatti un disco da mainstream, da heavy rotation sulle radio giuste. In TV anche, magari con un video ben girato. Lo stile di Seay qui è diventato maestoso, potente ma accessibile, rotondo, brillante. Questo è anche il disco con le migliori prestazioni di Garcia come cantante. Migliori rispetto a quanto s’era sentito prima e dopo. Le linee vocali sono splendide, le interpretazioni magnetiche, sentite. Visto che Garcia coi Cult s’è sempre confrontato, questa era l’occasione, con Seay e Cancino, di ereditarne la leggenda come fosse un testimone. Cancino poi, asciutto, secco, ma con una energia incontenibile. E fantasia. Certe rullate ti aprono il petto e ti costringono ad urlare. Reader come suona poi lo sapete, se non conoscete a memoria Welcome to Sky Valley non vi considero nemmeno.

Questo pezzo è palesemente il pezzo di un fan. Ma di uno esagerato. Di quelli tutti sudati e spettinati (avercene, di capelli…), di quelli che assomigliano a chi cerca di distogliere la folla dal proprio tragitto verso l’ufficio, per far capire alle persone perse che Gesù le ama o che la fine del mondo è vicina (è uguale). Considerate però anche che questo è il pezzo di un fan che sono venti lunghissimi anni che aspetta che qualcuno pubblichi per bene questo disco, stampandone la registrazione pulita, masterizzata. Che aspetta ancora la tournée mondiale che avrebbe necessariamente dovuto seguirne la pubblicazione. Che si è rotto il cazzo di sentire filippiche su Guns, Maiden e ‘Tallica, quando Eroi che avrebbero meritato di raccogliere quello che avevano seminato sono rimasti con un pugno di spighe bruciate in mano. Parlare di disco sottovalutato non ha senso, vista la sua storia. Però la successione di Summer, King, Trouble, Cain, Vince Fountaine, Hangman’s Daughter, Glory Out, Slaylina e, in fondo, Last Day, non è descrivibile se non con superlativi assoluti. Che però potrebbero persino non bastare, per me. In scaletta, a seconda della versione, pure nuove registrazioni di Thorn e Human Tornado, i due pezzi più à la AC/DC dell’esordio, e della bagnatissima Wet Pussycat. Se non avete mai sentito questo disco, bene, fatelo ora. E se pensate che sia pazzo o che stia davvero esagerando, venitemelo a dire. Magari riesco a convertirvi. (Lorenzo Centini)

3 commenti

  • Una delle più grandi ingiustizie del rock’n’roll. Il tour di reunion però non mi ha convinto del tutto… soprattutto il cantante (pare er monnezza, se possibile più unto).

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  • E’ abbastanza strano effettivamente che non venga pubblicato ufficialmente. Se penso che hanno ristampato “Request Permission to Land” dei semi-sconosciuti e dimenticati Volume… e l’anno è lo stesso (2003), l’origine geografica pure (chilometro più, chilometro meno), si fa fatica a capire perché The Great Divide non abbia ancora visto la luce come Dio comanda (sebbene circolino anche delle versioni in FLAC, file alta qualità).

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  • Jeremiah Goodboy

    Questo articolo è come quel disco: definitivo.

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