Avere vent’anni: SOLACE – 13

I Solace di Tommy Southard nascono dalle ceneri dei Godspeed, del New Jersey: io li conobbi proprio con l’uscita di questo loro secondo album, intitolato 13 prima che Loro facessero un titolo uguale.

In realtà ho conosciuto 13 come tanti altri dischi del mercoledì. Potevo comprarli in qualsiasi giorno, persino nel weekend. Il disco della domenica era quello per cui sistematicamente partivo da Badia a Settimo in autobus o in scooter, in direzione centro, con un livello di foga repressa da studiare presso le migliori facoltà di psicologia. Il disco del mercoledì era quello non messo in conto. Quello che mi sputtanava le finanze. Quello che mi rifilava il rivenditore.

In quell’occasione mi disse: “Li hai sentiti i Solace? È uscito il nuovo, è carino”.

Non è male” significava che potevo anche lasciarglielo. “È carino” significava che sapeva benissimo che me lo avrebbe venduto. The Sound of Perseverance invece me lo descrisse come “diverso dal solito, una bomba”. Non lo misi neanche su per un ascolto preventivo.

Invece 13 dei Solace era una mezza truffa perché partiva benissimo, poi perdeva un po’ troppi colpi in mezzo alla scaletta per ripartire dignitosamente dopo la decima traccia. Aveva una marea di canzoni, di cui almeno quattro di troppo.

Ma soprattutto me lo presentò come mi presentava quei pochi gruppi che non riusciva a inquadrare, il che poteva essere un punto a favore. Gli capitò anche con gli Arcturus, che naturalmente mi vendette. Nicola, laziale o giù di lì, partì più o meno così:

“Fanno una specie de stoner heavy rock psych modern warfare un po’ de sludge [colpo di tosse] ‘de doom i Sabbath [bestemmia sottovoce] la voce un po’ Ozzy poi strilla poi se ‘nceppa senti qua senti qua”.

Niente era vero e niente era falso. I Solace facevano davvero un poco di tutta quella roba dettata da Nicola. Il primo pezzo del disco, Loving Sickness / Burning Fuel, partiva sornione, poi accelerava alla Black Sabbath per poi lasciar spazio all’armonica. Capivi subito che ci sarebbero state molte dinamiche a darsi il cambio l’una con l’altra.

Le migliori erano di gran lunga Indolence e Once Around the Sun, con Jason in primissimo piano al microfono e le sovraincisioni vocali alla Down in chiusura. Radiofonica, quasi da viaggio Common Cause, prima di In The Oven (a Firenze “ni’ fforno”) e della cover malgestita dei Pentagram (Forever my Queen). Non tributarono soltanto Bobby Liebling ma anche gli Agnostic Front, con With Time, la prima del loro debutto datato 1984.

Il problema di questo 13 è che, tolto l’ottimo avvio, si riprende solo in chiusura, con Rice Burner. Una buona uscita, comunque, con una copertina figlia sfigata di quelle dei Cathedral (non a opera di Patchett ma di un certo Spinner, che non ho idea di chi cazzo sia e che mi auguro abbia disegnato altro che quella e un paio di compilazioni di 730 e Isee al CAF) e con una voce incerta, troppe volte in scia a Ozzy Osbourne (stesso problema degli sHeavy e di tant’altra gente), poi piena e possente alla Orange Goblin, infine allineata a quanto in voga nel giro dello sludge più aggressivo. Poca personalità, forse, ma misi gli occhi sui Solace e degli stessi altro non vi consiglio che di recuperare il debutto Further, uscito qualche anno prima. E per certi versi addirittura più bello. (Marco Belardi)

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