Dirt degli Alice in Chains compie trent’anni e fa ancora malissimo

Matteo Cortesi: Nei due minuti scarsi di apparizione in quell’interminabile pubblicità di vestiti che era e resta Singles (dove eseguono in presa diretta parti di It Ain’t Like That e Would?) l’unica vaga idea di cosa potessero essere gli Alice in Chains dal vivo per noi: Dirt esce undici giorni dopo, Layne Staley terrà botta un altro anno tra tour di spalla a Ozzy Osbourne e gruppo di punta nella terza edizione del Lollapalooza prima di chiudere per sempre coi concerti e ciao ciao Italia (e resto del mondo se è per questo). Rimanevano i video in televisione; all’inizio quella doppia voce mi metteva l’angoscia, poi alle prime legnate dalla vita sarei tornato a rifugiarmici, come da un amico tossico che ti dice qui com’è. Dirt ha l’inizio di disco migliore di sempre e troppo malessere da digerire tutto in una volta tutto insieme, ma presi singolarmente i pezzi fanno lo stesso effetto dei pezzi che Layne Staley ha continuato a scaldare nel cucchiaino fino alla fine. Da Sap all’omonimo col cane a tre zampe i dischi degli Alice in Chains per me valgono uguale, Facelift solo in parte (come i Pantera di Cowboys from Hell, non si erano ancora scrollati di dosso del tutto la merda glam con cui avevano cominciato), l’Unplugged su MTV quanto di più vicino all’estrema unzione di un parente mai conosciuto. Andrew Wood, l’unico spirito affine, era già morto da un pezzo; dopo di loro più nessuno (non riconosco l’esistenza della cover band messa su da Jerry Cantrell per tirare la carretta dopo che nel tour di supporto all’ultimo solista si era ritrovato ad aprire per i Nickelback).
Michele Romani: È difficile a distanza di trent’anni provare a dire qualcosa di originale a proposito di Dirt, il capolavoro degli Alice In Chains e per quanto mi riguarda uno dei più grandi dischi della storia della musica. Un disco soffertissimo fin dalla sua gestazione, con le sessioni di registrazione continuamente interrotte a causa di una Los Angeles messa a ferro e fuoco dopo l’assassinio di Rodney King e una band già all’epoca sull’orlo di una crisi di nervi: Layne Staley e Mike Starr in condizioni precarie per i motivi che tutti sappiamo, Sean Kinney in preda ai fumi dell’alcol e Jerry Cantrell che provava in tutti i modi a tenere le redini, già consapevole forse che il “suo” gruppo non avrebbe avuto vita lunga, come infatti successe. Il risultato non poteva essere che un disco maledettamente sofferto, carico di disagio e mal di vivere, soprattutto per quanto riguarda il suo lato B. Non so voi ma ogni volta che ascolto Dirt parto sempre da Sickman in giù; nulla da togliere a pezzi incredibili come Them Bones o Down in a Hole, ma la vera anima di ‘sto lavoro sta tutta in quella sorta di discesa negli inferi di un uomo solo che aveva scelto la musica per cercare di estirpare i suoi demoni, una sorta di condizione esistenziale messa per iscritto e cantata che non avrà più eguali. A me i testi di Dirt e Junkhead, o la cantilena inquietante di Angry Chair (loneliness is not a phase…), mettono i brividi ancora oggi a 30 anni di distanza. Un disco unico che solo chi l’ha vissuto in quel periodo può capire fino in fondo, e a oggi l’unico della scena grunge che ascolto regolarmente dal giorno del ‘93 in cui comprai la cassetta al mitico Ricordi di via del Corso.

Barg: Da ragazzino ascoltavo parecchio grunge, sia perché mi piaceva sia perché lo ascoltavano anche i miei amici. Sono quindi molto legato affettivamente a quei dischi e a quei nomi storici, e rimettere su i primissimi album dei Pearl Jam o dei Soundgarden mi ricorda un sacco di cose belle legate alle cazzate imbarazzanti che fai da adolescente. Gli Alice in Chains no: a loro ci sono arrivato da grande, ai primi anni di università, quando l’ottimo Marco Grassi mi consigliò di prendere il qui presente Dirt durante uno dei nostri raid alla sezione usato di Disfunzioni Musicali. Con il gruppo di Jerry Cantrell ho quindi un rapporto diverso, diciamo più ragionato, e il terrificante pessimismo cosmico dei loro testi non mi ha colpito durante lo spleen adolescenziale ma più tardi, quando le cose hanno iniziato a farsi un po’ più serie. Per questo riesco ad ascoltare allegramente i Nirvana fischiettando manco fossero gli Weezer ma ho bisogno di essere in un certo stato d’animo per sentire gli Alice in Chains. A ben vedere Dirt è uno dei miei dischi della vita, ma è molto raro che me lo senta per intero: di solito metto su i primi due/tre pezzi, quelli più chitarrosi e per quanto possibile neutri, ma non è che poi in una bella giornata di giugno mi vado a sentire Down in a Hole o quella cazzo di Junkhead che è un pugno al plesso solare ogni volta. Ad esempio le prime due di Jar of Flies (Rotten Apple e Nutshell) sono tra le mie canzoni preferite di sempre, ma non le sento mai per lo stesso motivo. Stesso discorso per il disco dei Mad Season che non sento da secoli. Per il resto non c’è altro da dire, perché voglio sperare che Dirt lo conosciate tutti a memoria.

Marco Belardi: Consideravo gli Alice in Chains la band più ostica di tutto il grunge e della scena alternative anni Novanta. Mi piacevano i riff e probabilmente non andavo oltre quelli. Poi successe qualcosa in un giorno in cui Layne, e di conseguenza gli altri tre, come pacchetto, erano bell’e sputtanati. Capii come funzionavano, mi ci addentrai e non smisi più d’ascoltarli. Dirt è a mio parere il disco più riuscito di quell’ampio movimento odiato da coloro che professavano l’hair metal, dai metallari in generale. A posteriori parlerei piuttosto d’invidia. L’unico titolo che tiene veramente botta è a mio parere Superunknown, dopodiché c’è uno scalino e cominciano gli altri, Nirvana inclusi. Un disco nel quale, come dissi in passato non ricordo dove, una canzone “minore” come Hate to Feel può per qualche motivo oltrepassare i classici e divenire la tua preferita. Un disco nel quale ho riscoperto tracce che saltavo categoricamente, trovando in esse quel qualcosa di pazzesco che le accomuna tutte. Uno dei dieci dischi della vita, con certezza.

L’Azzeccagarbugli: Ci sono pochi album che riescono ad incarnare lo spirito di un certo periodo storico come Dirt. Uno dei dischi più brutalmente onesti che siano mai stati incisi e che, anche per questo, non riesco ad ascoltare molto di frequente. Parliamo di un album che si apre con Them Bones, pezzo sull’ineluttabile capolinea trattato con fatalismo e rassegnazione, che ha come singolo Down in a Hole, una delle canzoni più lucide e spietate sulle insicurezze e le frustrazioni personali che siano mai state scritte (e che pur parlando di una relazione sentimentale, “in bocca” a Layne Stayley assume tutt’altro significato), e che contiene un vero e proprio manifesto di disagio come Hate To Feel. Un disagio generazionale che abbracciava molti membri di rilievo di quella scena e che, ex post, si è rivelato essere purtroppo autentico e in molti casi insuperabile. Una onestà tematica che si percepisce anche musicalmente, perché è evidente che in questo disco gli Alice in Chains hanno buttato tutto quello che avevano dentro, senza filtri. Il risultato è un suono cupo, impenetrabile, quasi asfissiante, che su un ragazzino di undici anni (quanti ne avevo la prima volta che l’ho ascoltato) ha avuto un effetto difficilmente descrivibile.
Perché se il primo disco che ho acquistato di mia volontà è stato In Utero e poco dopo sono arrivati gli Smashing Pumpkins e poi l’iniziazione al metal, è Dirt il primo album che mi ha spinto ad “andare oltre” al semplice ascolto delle canzoni, a cercare di capire cosa volevano dire quei testi e a saperne di più di quel mondo di cui intravedevo qualche scampolo grazie a MTV e Videomusic. Un mondo durato poco e che, per quanto mi riguarda, finisce proprio con gli Alice in Chains, con Layne Staley con i capelli rosa e lo sguardo perso nel vuoto nell’Unplugged del 1996.

8 commenti

  • oh bello eh, ma per me Jar of Flies resta inarrivabile

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    • Eh, la cosa bella è che questi nel ’92 hanno pubblicato il disco migliore della scena di Seattle. E due anni dopo l’hanno fatto di nuovo, superando se stessi. Dirt è clamoroso, Jar of Flies non è semplicemente di questo pianeta.

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  • Bel post, davvero. Faccio fatica dire qualcosa di significativo su un disco che vuol dire molto, forse troppo per me. Ancora oggi. Mi astengo e vi ringrazio per il valore che gli avete riconosciuto.

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  • Bel Pezzo e concordo con tutti. Visto quest’articolo, a quando una rubrica ” avere trent’anni” o più? Io che ho vissuto per lo più fine anni 80 e 90 non trovo molto negli articoli sui vent’anni, mentre penso che sui dischi degli anni precedenti ci sarebbe molto da dire.

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  • Più che ‘disco della vita’, non gli stonerebbe la definizione ‘disco della morte’. Bel pezzo collettivo, complimenti ai ragazzi!

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  • Non so se mi fa più male ripensare a Dirt, o al citato Disfunzioni Musicali.

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