Finché c’è Doom non c’è speranza: un calderone autunnale

E infine è sopraggiunto inevitabilmente l’autunno. Che amiate passarne i piovosi fine settimana guardando in cagnesco la gente spensierata fuori dalla finestra, che non si arrende all’ineluttabile caducità delle cose di questo mondo, o piuttosto davanti a un bell’horror di una volta, con una copertina sulle gambe, noi di Metal Skunk pensiamo sempre a voi, lo sapete bene, e vi proponiamo una colonna sonora perfetta che si addice anche alla zuppa di zucca e castagne che bolle in pentola. Doom classico e tradizionale come la fantasia del plaid che vi ha cucito la nonna.

Partiamo col bel ritorno, fresco fresco, dei veterani COUNT RAVEN, all’insegna della filologia ozzyana più ortodossa, anni 70 e freddo alle ossa. Suono bello fragoroso e a grana grossa, per fortuna migliore di quello dei dischi classici. Cui forse finisco per preferire quest’ultimo The Sixth Storm. Proprio per le chitarre, per il tono. Tra tanti cloni dei Black Sabbath, i Count Raven ribadiscono la precedenza maturata negli anni e lo fanno con 73 minuti che scorrono come un bell’horror di una volta. La copertina sembrerebbe addirittura la locandina perfetta de L’arcano Incantatore. Voce e linee vocali sono palesemente “ispirate” dai classici del Madman. Sentite The Ending, se proprio bisogna dirne una soltanto, per il suo bel ritornello. Ci sono pure le ballatona strazianti e malinconiche, pianoforti e sintetizzatori in evidenza. Ben due, Heaven’s Door e la conclusiva Goodbye. Tutto come Ozzy comanda. Certo, gli acuti non fanno proprio per loro, prendete il ritornello di Baltic Storm, che a tratti rischia di rovinare la tensione. Che, invece, nonostante la durata considerevole, regge benissimo lungo tutto il disco. Una garanzia.

Sempre Svezia, sempre Doom tradizionale (ovviamente), però un esordio stavolta, Last Days of Babylon dei THE SONIC OVERLORDS, in cui compare come ospite, in una traccia bonus che non sono riuscito a recuperare, persino Tony Martin. E questo dovrebbe dirvi già praticamente tutto. Non è nemmeno un caso, dato che il chitarrista degli svedesi figurava nella sua band. Quei Sabbath sono quindi i riferimenti più immediati. Ma, tanto per restare in Svezia, anche primi Sorcerer e ultimi Grand Magus. L’opener Utopia fa partire il disco subito col piede giusto (il sinistro). E se l’utopia fosse quella delle visioni di Bosch in copertina, immaginate che spasso. Il pezzone ce lo sbattono in faccia subito dopo, alla traccia numero due. È In My Darkest Room e se dicessi che starebbe bene in Headless Cross o in Tyr non la sparerei così grossa, credetemi. “Find me in my darkest room/Waiting for my demons”, e come niente sembra proprio anche qui di essere nel castello dell’incantatore di Avati. Fosse tutto a questi livelli, staremmo già riservando un posto di riguardo tra quanto uscito quest’anno. Anche se non è proprio così, noi non ci rimaniamo male. La cadenzata World on Fire termina trasformandosi in cavalcata tipo quella di Heaven and Hell, e, che volete farci, sono sensibile a certe cose io. Eternal Heroes (Last Days of Babylon) chiude con un altro omaggio piuttosto palese alla carriera di Dio (stavolta a quando faceva comunella con Blackmore). Occhio al video, particolarmente brutto. La canzone no, invece, al contrario. Se va tutto come deve, c’è da aspettarsi belle cose in futuro da questi qui.

E veniamo ad Until the Darkness Goes, nuovo album degli APOSTLE OF SOLITUDE, provenienti dal Midwest ma arrivati a Roma in casa, ma guarda tu un po’, Cruz Del Sur. Ma sbagliarne una ogni tanto, voi, no? Parto dalla copertina che mi aveva catturato prima di una singola nota, pensando fosse moooolto Candlemass. Invece il disco no, manca l’epica (non per forza un male). Invece di sconforto c’è n’è quanto ne volete. Il pezzo più rappresentativo si chiama Apathy in Desolation, fate voi. Doom secco, senza effetti speciali e con nessuna pretesa di divertire o sorprendere. Quindi anche il tono dimesso non è mai lugubre in senso estetico. Siamo dalle parti, intime ed esistenziali, dei Warning, e quindi in un territorio in cui gli AOS quest’anno se la vedono coi Cross Vault. Oppure persino con gli A Pale Horse Named Death, dato il cantato molto pulito e qualche (vaghissima) suggestione di Alice in Chains. Giusto un briciolo. Deeper Than The Oceans (e dai con l’ottimismo) arriva coi suoi tempi ad un ritornello splendido che rilascia un bel po’ di tensione, ma poi c’è l’intermezzo Beautifully Dark (e vai così) a sprofondare nuovamente nella mestizia. In Union cantano “We all die alone”, fa sempre piacere sentirselo ricordare. Insomma, ci siamo capiti, non è musica per tutti i giorni, spero di no per voi, almeno. Ma in quei giorni funziona. E se il riferimento fosse più lo slowcore che il doom metal? L’ultima Relive the Day sembrerebbe confermarlo. D’altronde forse anche quella era solo una forma di doom, a ben pensarci. Gran bell’ascolto.

Per i completisti (lo so che ci siete), aggiungiamo infine tre dischi che stanno benissimo in questo contesto, anche se, ecco, personalmente non mi sono stracciato le vesti. I THE ANCIENT DOOM sono cileni e, vabbè, che musica volete che facciano con questo nome. Il disco si chiama In Hoc Signo Vinces, ma non ho indagato se vanno per davvero a messa la domenica. Cantano in spagnuolo e questo dà quel tono di esotico che non guasta. La musica non svetta molto, ma la copertina è bellina davvero. In quella dei LUCIFER’S CHILDREN c’è un’ancella insolente colta in flagrante nell’atto di vandalizzare un pronao. Saranno i segni del titolo del disco, Signs of Saturn, quelli con cui insozza la parete? I Children son paraguaiani e canta per davvero una donzella. Altri segni particolari non ce ne sono. Son ragazzi, cresceranno. Chi invece è cresciuto già abbastanza, in teoria, e Bobby Liebling che se ne è andato a trovare quell’altro vecchietto di Dave Sherman (Earthride, Spirit Caravan, Obsessed). Forse per una sobria briscolata in cantina. Comunque siano andate le cose, il risultato è questo Nite Owl a nome BOBBY LIEBLING & DAVE SHERMAN BASEMENT CHRONICLES. Chiaramente si tratta di poco più che di un cazzeggio estemporaneo. La prossima volta invitino magari pure Brant Bjork e Nick Oliveri. (Lorenzo Centini)

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