BLUT AUS NORD – Ethereal Horizons
“Ma vortice su vortice di follia
Offuscò la mia laboriosa visione;
La mia dannata, arrossante visione
Che costruì un nuovo mondo per la mia vista”(H.P. Lovecraft, Nathicana, 1927)
Mi è sembrato opportuno iniziare a parlare del nuovo, ottimo, album dei Blut Aus Nord citando Lovecraft, visto che gli ultimi due album erano direttamente ispirati all’opera dell’autore di Providence. E mi è piaciuto menzionare questo passaggio di un suo poema a me molto caro, perché esprime un po’ quello che accade ad alcune band molto “eclettiche” e stava lentamente accadendo anche ai transalpini. Sebbene abbia molto apprezzato la prima parte del dittico lovecraftiano, già in quel caso si iniziava a sentire un’eccessiva ricerca della soluzione più complicata e più dissonante, dato che è emerso con ancora più forza nel penultimo Disharmoniun: Nahab, in cui alcune sovrastrutture finivano per venire ancor prima delle “canzoni”, risultando forzato e facendo perdere di intensità a composizioni comunque riuscite. Vortice su vortice di follia offuscò la loro laboriosa visione, in poche parole.
E probabilmente è per questo che Vindsval e soci hanno deciso, prima di cadere nella trappola della “complessità fine a sé stessa” come accaduto ad ottime band quali gli Oranssi Pazuzu, di fare un passo indietro, senza però rinnegare quanto fatto più di recente. In tal senso Ethereal Horizons è un po’ una summa di quello che sono i Blut Aus Nord: abbiamo la vorticosità degli ultimi lavori, ma utilizzata solo come base dei riff su cui si stagliano composizioni che, idealmente, rappresentano un perfetto, drammatico, epico punto di incontro tra Memoria Vetusta e Hallucinogen. Ma anche con elementi di novità. Ho letto, con riferimento a brani come l’iniziale Shadows Breathe First e la successiva Seclusion di blackgaze, che ormai è un genere codificato, mentre in realtà è più opportuno parlare, di un black metal tiratissimo, molto atmosferico in cui si inseriscono elementi di vero e proprio shoegaze nelle distorsioni e di post-rock nelle armonizzazioni e nelle orchestrazioni. Una fluida combinazione chimica che riesce ad esprimere al meglio la carica visiva che questi orizzonti eterei hanno fin dal titolo e dallo splendido artwork di Maciej Kamuda.
Ma il nuovo album dei transalpini riesce ad inglobare anche echi progressive che possono, alla lontana, richiamare anche elementi dell’ottimo trittico 777 e, in particolare in The Ordeal, per chi scrive, miglior brano dell’album, gli Enslaved del periodo Below The Lights / Isa. Un lavoro estremamente vario, ricco e non immediato – come sempre – che, però, rispetto al passato più prossimo, riprendendo anche la lezione del già richiamato Hallucinogen, riesce a mettere anche in primo piano la melodia, come nella notevole What Burns Now Listen, in cui si alternano riusciti cori in pulito, al solito mellifluo screaming di Vindsval.
Sette brani senza nessun calo per cinquanta minuti abbondanti di musica che attinge tra passato e presente, tra momenti di eterea stasi, infuocate ripartenze, epicità e progressive. E che ad ogni ascolto continua a rivelare nuovi spunti, nuove chiavi di lettura e che ogni volta che si arriva alla conclusiva, drammatica e solenne, The End Becomes Grace, ti fa immediatamente venire voglia di rimettere su l’album, dimostrando, a dispetto della sua oggettiva complessità – seppur ridotta rispetto alle ultime uscite – una sorprendente fruibilità. Uno dei dischi dell’anno che chiude, idealmente, un’altra bella annata, alla faccia delle tante prefiche e cassandre che, con cadenza ormai semestrale, ci ricordano come ormai “faccia tutto schifo”. Perché anche se il “rock” (ampliamo il discorso) muore ogni tot a partire dal 1959, di dischi belli, anche molto, continuano ad uscire ogni anno. Basta non avere paraocchi e preconcetti. (L’Azzeccagarbugli)


Ecco, sto disco invece finisce nella mia playlist di fine anno. Bellissimo.
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