Avere vent’anni: OPETH – Ghost Reveries
Quando uscì il loro ottavo album, gli Opeth erano già una band di culto consolidata e rispettata, ma vivevano un momento di equilibrio instabile. Dopo il successo di Blackwater Park, vera e propria consacrazione internazionale, e la doppia parentesi Deliverance/Damnation (due facce della stessa medaglia: una estrema e una interamente acustica), il rischio di ripetersi era dietro l’angolo ed era difficile prevedere verso quali lidi si sarebbero diretti gli svedesi. Con Ghost Reveries, Mikael Åkerfeldt e soci scelgono invece di muovere un passo in avanti, confezionando un disco che, col senno di poi, suona come un’opera di transizione cruciale: ancora intrisa di violenza e growl dominante, ma con le influenze puramente progressive anni ’70 non più relegate a brevi parentesi, bensì integrate in modo strutturale, nella scrittura, nelle armonie, nei suoni di tastiera e negli arrangiamenti.
È un cambiamento che all’epoca poteva sembrare sottile, ma che oggi risulta essere il primo e concreto segnale di una traiettoria precisa: il progressivo affrancamento dai territori più estremi, che avrebbe trovato la sua tappa successiva – e più marcata – in Watershed, per poi compiersi definitivamente con Heritage e i lavori seguenti. In questo senso, Ghost Reveries si inserisce in un filo conduttore che parte da Blackwater Park, attraversa Watershed e arriva fino a The Last Will and Testament: un trittico ideale, legato non tanto dalla somiglianza sonora quanto da una continuità concettuale, da un’idea di evoluzione e trasformazione portata avanti in tre fasi. In mezzo a questi dischi troviamo un’altra band, quasi completamente distante dal metal, capace anche di realizzare opere a tratti riuscite, ma troppo lontane da quello che la band aveva rappresentato fino a quel momento.


Ricordo perfettamente il primo ascolto, un pomeriggio qualunque sulla Purple Valley del Nuovo Nomentano, quando il mio amico Roberto Angolo mi mise tra le mani un CD-R promozionale watermarked – sì, esistevano ancora i promo fisici, con tanto di scritte che ti ricordavano che quel disco non era “tuo” – e, concesso lo ius primae noctis al detentore dell’agognato promo, ascoltammo insieme il nuovo parto degli Opeth. Appena partì Ghost of Perdition tutto si fece chiaro: dieci minuti in cui il growl di Åkerfeldt, le chitarre ipnotiche e i cambi di tempo vertiginosi convivevano con aperture melodiche da brividi e tappeti di tastiera che parevano usciti da un disco dei Camel o dei King Crimson. Non avevo ancora finito di metabolizzarla che The Baying of the Hounds mi investì con la stessa forza: meno immediata, più stratificata, ma altrettanto devastante e con un lato prog ancora più insinuante e marcato, soprattutto nella struttura e nei suoni.
Se la doppietta iniziale è, per quanto mi riguarda, l’apice dell’album, il resto del disco non è da meno. Beneath the Mire fonde riff pesanti e passaggi liquidi in un equilibrio quasi perfetto in cui, dopo un’inizio orientaleggiante, riaffiora l’influenza del più volte menzionato Blackwater Park, così come nella notevole Reverie/Harlequin Forest, lunga suite in costante mutazione. Altrove gli Opeth esplorano territori che avrebbero maggiormente scandagliato nel loro futuro prossimo, come in Atonemento Hours of Wealth. Al netto di qualche lungaggine, l’album è comunque riuscito. Emerge ancora netta la personalità di Åkerfeldt, che si sarebbe persa di lì a poco tra citazionismi troppo marcati per tornare a farsi viva nell’ultimo album dello scorso anno. In tal senso la conclusiva Isolation Years, breve e malinconica, suona quasi come un epitaffio per un’epoca che stava per finire.
Riascoltato oggi, Ghost Reveries conserva intatti la sua forza e il suo fascino, ma rivela anche tutta la sua natura di album in bilico: abbastanza estremo da accontentare chi amava gli Opeth più duri ma già anticipatore della svolta progressive che si farà più definita nel successivo Watershed. Il suo fascino sta proprio in questo ruolo di transizione che lo rende un unicum, un tassello fondamentale di un percorso che, iniziato con Blackwater Park, avrebbe trovato una sua sintesi in Watershed e un’inedita maturità nell’ultimo TheLast Will and Testament, chiudendo un cerchio lungo vent’anni in cui gli Opeth hanno dimostrato, nel bene e nel male, di non voler mai restare fermi. (L’Azzeccagarbugli)


