KATATONIA – Nightmares as Extensions of the Waking State
Dopo mesi intensi di grandi cambiamenti per i Katatonia, legati al non sorprendente abbandono di Anders “Blackheim” Nyström e ai primi strascichi di polemiche tra lui e Jonas Renkse che, sinceramente, ci saremmo risparmiati e che non sono stati gestiti benissimo, è difficile riuscire a scindere questo contesto dall’analisi di Nightmares as Extensions of the Waking State. Da un lato perché, pur non volendo “prendere posizioni”, è evidente che si tratta di un album che per tempistiche è stato senz’altro composto e registrato “alle spalle” di Blackheim, dall’altro perché si tratta di un contesto pesante che, evidentemente, ha inciso sul risultato finale del disco che, senza, troppi giri di parole, è tra i lavori meno convincenti della discografia dei Katatonia. Il che, con una discografia di tale caratura, non significa che si tratti di un brutto album, anzi, ma di un’opera che – almeno oggi, ancora a caldo – mostra, per chi scrive, segnali di evidenti criticità.
Partiamo da una premessa: non si tratta di un album di “svolta”, inserendosi perfettamente nel solco tracciato da Dead End Kings in poi, con sonorità molto vicine all’ottimo The Fall of Hearts e al meno riuscito City Burials, con alcuni richiami al passato più o meno prossimo di Night is the New Day e, in parte, a The Great Cold Distance, il tutto con alcuni spunti “inediti” nella proposta degli svedesi, che lasciano intravedere segnali di cambiamento per l’imminente futuro. Seconda premessa: a dispetto delle aspettative dettate dal contesto di cui sopra, Nightmares as Extensions of the Waking State è senza dubbio l’album più pesante e cupo pubblicato da Jonas Renske negli ultimi anni. Il che non significa, affatto, un ritorno a sonorità del passato – anzi, si percepisce un ulteriore allontanamento – ma un irrobustimento del suono ed uno spostamento verso altri territori, anche più vicini al metal, rispetto ai lavori più recenti.
In tal senso eloquente è l’apertura della notevole Thrice, con tanto di break quasi à-la Meshuggah nella seconda parte e le chitarre che, in alcuni passaggi, ricordano gli Opeth più progheggianti. Perché alla fine non si può più nascondere l’elefante nella stanza: se nel precedente – che per me rimane ottimo – Sky Void of Stars si aveva una “semplificazione” delle strutture e soprattutto delle ritmiche rispetto ai suoi immediati predecessori, in questo album la tendenza è esattamente agli antipodi, riprendendo il discorso di The Fall of Hearts e virando verso un progressive estremamente cupo, freddo e moderno, che in alcuni momenti richiama i Leprous. Il che non deve essere visto come una cosa negativa – i Katatonia non sono più quelli che erano fino ai primi 2000, e se non si è ancora preso atto di questo concetto, c’è poco fare – ma il problema è il modo in cui questo più incisivo passaggio a queste sonorità si inserisce nella scrittura di Renske.
In tal senso, anche la successiva The Liquid Eye convince pienamente e propone soluzioni interessanti che, pur restando nel solco degli ultimi Katatonia, lasciano intravedere anche nuove soluzioni. Ed è proprio qui che si trova il limite dell’album: laddove Renske – unico compositore, ça va sans dire – riesce ad inserire elementi “nuovi” in un contesto solido, come nei brani già richiamati, o nell’ottima The Light Which I Bleed, i risultati risultano essere convincenti, quando, invece, cerca di apportare maggiori elementi di novità, si avverte una certa confusione e, soprattutto, una mancanza di coesione all’interno delle singole composizioni. In tal senso emblematico è il primo estratto dell’album, Liliac, che sembra quasi un collage di tre diverse composizioni, capace anche di regalare momenti intensi, come il toccante finale, ma che, nel complesso, non convince del tutto proprio per un effetto di palpabile spaesamento. Stessa sensazione che accompagna l’ascolto della conclusiva (escludendo le bonus track tra cui figura una cover di A World Without Heroes dei Kiss) In the Event Of, in cui, pur essendo presenti dei passaggi notevoli e un bellissimo assolo gilmouriano, il risultato complessivo non risulta essere assolutamente all’altezza.
Ancor di più indicativo di una certa confusione e – ci tornerò a brevissimo – di un’evidente “frettolosità” è il terzo estratto, Wind of No Change, vero e proprio mostro di Frankenstein di diversi stili, con un incipit in stile Paradise Lost e uno sviluppo davvero inconcludente e contraddistinto anche da un testo sinceramente ridicolo (con tanto di un anacronistico Hail Satan). Come dicevo, è difficile separare il giudizio su questo Nightmares as Extensions of the Waking State dal contesto in cui è nato, e in tal senso la sensazione è che questi brani avrebbero necessitato di ulteriore lavoro a livello compositivo e l’idea – rectius: suggestione – che esigenze, contrattuali e di tempistiche, abbiano imposto una tabella di marcia troppo stringente, resta, per chi scrive, assolutamente valida.
Fortunatamente sono anche presenti brani più coesi che, pur non essendo tra le migliori composizioni del passato più prossimo, convincono decisamente di più, come il secondo estratto Temporal, la lineare Warden e l’ottima Departure Trails, molto vicina ad alcune cose di The Night is The New Day, tra le migliori dell’album, e il pezzo che più si allontana dal contesto di riferimento, la semi-ballad su base elettronica (dal sorprendente finale) Efter Solen, primo brano in svedese di Renske che, in più di un’occasione richiama i conterranei Kent. Una canzone sentita, ben scritta e che arriva direttamente al cuore, pur da territori quasi totalmente alieni ai Katatonia.
In conclusione, come avrete intuito, Nightmares as Extensions of the Waking State è il più classico dei dischi di transizione, che lascia intravedere un solco tracciato verso il futuro, che avrebbe necessitato di una lavorazione più lunga, ma che nei momenti migliori – che con il tempo potrebbero aumentare – riesce a convincere e, senz’altro, a destare curiosità per le prossime evoluzioni degli svedesi. E nonostante ritenga, in ogni caso, tristi le modalità attraverso cui si sia arrivati a questa separazione, l’idea di attendere, in un futuro prossimo, album di due band capitanate da Renske e Nyström mi incuriosisce non poco. E per il prode Blackheim non possiamo augurarci, con italico orgoglio, che decida di chiamare la sua nuova creatura con l’unico, giusto, nome possibile: Katatonia of Fire. (L’Azzeccagarbugli)


