Avere vent’anni: BRUCE DICKINSON – Tyranny Of Souls

Con Tyranny of SoulsBruce Dickinson rientra nel proprio mondo solista dopo sette anni di silenzio, sette anni in cui ha calcato palchi con gli Iron Maiden, ha pilotato aerei commerciali, scritto libri, lanciato birre e, come se non bastasse, è anche invecchiato meglio di noi. Eppure, nel 2005, quando è uscito questo album, la sensazione è che il mondo, occupato con la reunion della Vergine di Ferro ancora abbastanza fresca, si sia dimenticato che esisteva anche questo Bruce qui, che in molti casi ha dimostrato di essere superiore ai lavori della band madre.

Ecco quindi un disco che nasce in sordina, composto tra un soundcheck e un decollo, registrato tra due voli e tre tour, con Roy Z a reggere il timone musicale e un pugno di musicisti fidati a completare il quadro. Ma non fatevi ingannare dal contesto: Tyranny of Souls non è affatto un disco di passaggio, né un compitino tra un album e l’altro. È un’opera solida, compatta, e in alcuni momenti ispiratissima, che paga soltanto lo scotto di uscire dopo due autentiche gemme come Accident of Birth e The Chemical Wedding, con le quali inevitabilmente verrà confrontata, ma che ha davvero diverse frecce nel suo arco e che, personalmente, con l’esclusione di Dance of Death (mio personale feticcio al quale sono legatissimo), è superiore alla produzione dei Maiden post-reunion (e io sono tra quelli a cui comunque Senjutsu è piaciuto).

Il disco si apre con Mars Within, breve intro atmosferica che prepara l’ingresso di Abduction, primo vero brano e dichiarazione d’intenti: riff taglienti, ritmiche serrate e voce ancora in palla. Non è il Bruce che tende a tirare oltre il limite le sue corde vocali nei Maiden più recenti, qui siamo altrove: più rock, una voce più calda che segue anche registri diversi, come vedremo nel corso dell’album. Se Soul Intruders prosegue sulle coordinate dell’apertura, con una struttura molto “quadrata” che si apre sul bridge e sul ritornello (notevole e che, seppur ripetuto molto spesso, ti si stampa in testa), è dal terzo brano in poi che si entra nella parte migliore del disco. Kill Devil Hill, dedicata ai fratelli Wright e alla mitologia del volo, è costruita come una cavalcata epica che però non cede mai alla retorica. La voce di Bruce è morbida e controllata nelle strofe, esplode nei ritornelli e si insinua perfettamente sulle chitarre, mai in primo piano come su questo lavoro. Un pezzo epico che solo certi artisti riescono a scrivere, che beneficia della produzione asciutta di Roy Z, molto criticata all’epoca ma che invece funziona alla grande: nessun eccesso, nessun barocchismo, anche grezza in alcuni passaggi, ma capace di far arrivare i pezzi al cuore.

E a tal proposito, il cuore pulsante dell’album arriva subito dopo e si chiama Navigate the Seas of the Sun. Una ballata indimenticabile, un brano fuori dal tempo, quasi alieno rispetto al resto del disco, con un arrangiamento minimale, acustico, sospeso, e un testo che – complice la fascinazione di Bruce per le teorie di Von Däniken – si muove tra spiritualità, fantascienza e una malinconia struggente. È la vetta emotiva dell’album, la sua vera anima. E il modo in cui Bruce canta il ritornello – sottovoce, in modo quasi anticlimatico – fa venire i brividi.

Il resto del disco, pur muovendosi quasi sempre su binari più convenzionali, è comunque molto riuscito, al netto di qualche momento.. River of No Return e Power of the Sun alternano passaggi riusciti ad altri meno incisivi (soprattutto la seconda), ma conservano un equilibrio compositivo che impedisce al disco di cadere nel mero mestiere. La conclusione è affidata ai due brani più cupi del lotto: la sulfurea Believil, e il brani omonimo, intricato mid tempo davvero riuscito che chiude perfettamente il ritorno di Bruce solista.

È un album perfetto? No. Ha momenti meno ispirati, certo, e a tratti paga – forse – la sua genesi frammentata. Ma è un disco davvero sentito, con un’identità fortissima e una coerenza rara che mancherà quasi del tutto nel successivo e per me poco ispirato The Mandrake Project. È anche, paradossalmente, un lavoro che beneficia del tempo: più lo ascolti, più affiora. Non ha le stimmate del capolavoro immediato, ma ha la stoffa dell’album che invecchia benissimo. Oggi, riascoltandolo, ci si accorge che alcune delle idee più interessanti del Dickinson solista sono qui dentro, solo che ai tempi eravamo troppo occupati a guardare altrove. (L’Azzeccagarbugli)

5 commenti

  • Avatar di weareblind

    Bel commento. Io trovo Giuseppuzzu inascoltabile, almeno 3 mesi al 41-bis andrebbero comminati. Questo album, che non ascolto quasi mai, a differenza dei 2 precedenti, è invece un buon album.

    Ah, altri 3 mesi per Mandrake.

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  • Avatar di Bonzo79

    Ottimo lavoro, non perfetto ma ricchissimo di idee. Dickinson è molto più Artista degli Iron Maiden, se capite cosa intendo, e anche Mandrake Project lo dimostra (anche se deludente, almeno cerca di esprimere qualcosa, a differenza dei tutti uguali e noiosi dischi dei Maiden degli ultimi 20 anni)

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  • Avatar di Mezman

    Ricordo la recensione del Mancusi quando uscì: buonissimo album, ma manca quel picco tale da renderlo memorabile. Come Rime of the ancient mariner alla fine di Powerslave.

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  • Avatar di Epicmetal

    Niente da aggiungere, disco da 8 dopo due da 10 quindi passò in sordina…adesso invece ci suchiamo Mandrake che fa sembrare questo un capolavoro

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