Alle origini dell’universo: EXTERMINATUS – Echoes from a Distant Star Part I
Quando si parla di death metal tecnico è facile che a chi legga venga l’orticaria. Effettivamente, oggi come oggi, il genere è praticato da gente poco raccomandabile e spesso con un ego talmente enorme che le composizioni risultano infarcite di tecnicismi un po’ fini a se stessi; un po’ come un calciatore che si mettesse a tentare il record di palleggi durante una partita. A che servirebbe? A riempire i social di reel, e nient’altro. Fortuna che c’è anche chi si approccia al genere con lo scopo ultimo di fare Musica. Gli Exterminatus sono tra questi.
Esistono dal 2012, sono canadesi, e mi stupisce che non abbiano ancora un’etichetta alle spalle (Unique Leader, sto guardando proprio te). Faccio un passo di lato: se a “Canada” e “death tecnico” associate subito gli Archspire, non temete: gli Exterminatus non fanno quel genere. Nemmeno quello dei Cryptopsy. Loro sono più dalle parti dei Decapitated di The Negation e Organic Hallucinosis, e dei The Faceless meno piagnoni.
Hanno già dato alle stampe due dischi: Veni, Vidi,Vici del 2013, un po’ acerbo a dire il vero, e Laniakea del 2018, già molto migliore, con la traccia omonima in chiusura che mi sta spaccando il cervello da quanto continua a risuonarmici dentro. L’ultimo lavoro, che qui trattiamo, si chiama Echoes from a Distant Star Part I, segna un ulteriore passo avanti nella carriera di questa semisconosciuta band (non ce n’è traccia nemmeno su AMG) ed è nettamente il migliore inciso finora.
Le grandi falcate evolutive tra un disco e l’altro sono impressionanti. In questa terza fatica (e faticoso deve essere stato sul serio comporre una cosa del genere e autoprodurla) troverete riff incredibilmente belli, suonati dai chitarristi Tabreez Azad e Elia Baghbaniyan, una sezione ritmica devastante composta dal bassista Lucas Abreu e dal batterista Max Sepulveda, che ha curato anche registrazione, missaggio e mastering (quest’ultimo insieme a Zack Ohren) e il growl spaziale di Luka Bresal. Le composizioni sono tutte pazzesche per varietà, dinamismo e potenza. E, torno a ripetere, niente tecnicismi o barocchismi buttati a casaccio: qui la tecnica serve la musica, col fine di costruire un immaginario cosmico, in questo primo capitolo di un concept sulle origini dell’universo, la cui ispirazione viene dai libri di Asimov e Clarke.
La maturità della band sta anche nell’avere un intelligente senso del limite: il disco dura infatti 33 minuti e lascia la voglia di farlo ripartire immediatamente. Sentitevi come attacca la traccia di apertura Cosmic Disturbance e mi darete ragione. (Luca Venturini)

