Si fa presto a dire NWOTHM: canone priestiano, appropriazioni culturali e armature da carnevale

Che per i CENTURY il mondo non è andato oltre una certa finestra temporale piuttosto risicata a inizio anni ’80 lo dapevamo già. Stilisticamente, rispetto a The Conquest of Time, album che abbiamo incontrato un paio di anni fa, non è cambiato praticamente nulla. In termini di coesione sì. Per cui il nuovo Sign of the Storm mi pare ben più a fuoco e teso di quanto ricordi del precedente. Una collezione di dieci canzoni per cui la definizione di New Wave of Traditional Heavy Metal suonerebbe errata solo per quel “new” all’inizio. Di nuovo c’è proprio nulla. E allora cos’è che anche a questo giro impedisce all’intera faccenda di trasformarsi in una mascherata?

Beh, sicuro il profilo basso e iconoclasta. Ai due svedesi continua ad interessare esclusivamente la musica, che tra riff terzinati, doppia cassa ad elicottero, aperture melodiche da fantasy oscuro e qualche occasionale falsetto strozzato è ancora una specie di media tra Iron Maiden (epoca Di’Anno), Angel Witch ed Heavy Load. Certo, come l’altra volta, manca dinamica. Sia interna ai brani che nella dimensione dell’album, tra brano e brano. Tutti heavy veloci-ma-non-troppo, tutti con la stessa formula, tutti con la stessa atmosfera. Qualcuno un po’ meglio degli altri, tutti generalmente buoni o più. Ma mai una variazione, mai un cambio di scenario, un rallentamento, una parte più aggressiva, non so, una canzone dalla struttura differente. Unica eccezione, un passaggio synth/ambient/fantasy nella traccia conclusiva, lo strumentale Sorceress. Quindi no, l’oltranzismo filologico e la bravura dei due fa sì che Sign of the Storm, non suoni come una mascherata. Ma ci vorrebbe ben altro sforzo compositivo per fare in modo che dieci canzoni heavy formalmente ineccepibili non si trasformino in rumore bianco entro i quaranta minuti scarsi di durata dell’album.

Sicuramente meno preoccupati di mantenere un profilo basso, e quindi più adatti a suonare nelle cuffie in tempi di stelle filanti e dolciumi fritti e colorati, i tedeschi BLACKSLASH, che si rifanno sì, anche loro, ai Maiden (solo magari quelli più in là negli ’80, più una vena hair metal pronunciata), ma si allineano alla tendenza più chiassosa della NWOTHM media. Senza lode né infamia, Heroes, Saints & Fools è qualcosa come il quinto album in dodici anni. In copertina un Eddie templare alle prese con un diavolo Marino e carnascialesco. Cosa vi aspettate dal contenuto? Qualcosa di raffinato e sognante?

Sicuro i germani non si fanno problemi ad optare per soluzioni più “moderne”, tipo il riff panterizzato di Life After Death (una mezza lagna di canzone, però) o quel cavolo di tempo di batteria lento che hanno diffuso i Meshuggah e che appare senza senso in Sacrificed. Il buon gusto, si sa, non è la prima caratteristica che si ricerca in un prodotto tetesco. Certo non si può dire che il disco non si lasci ascoltare, anche con del piacere, per diversi tratti. Suoni strapuliti, quel tipo di produzione asettica da supermercato. Un’inaspettata dichiarazione d’amore alla città di Tokio che parte con un riffetto che pare una frase presa dai vecchi In Flames, ma riprodotta dalla pancia di un giocattolino per infanti. A conti fatti, va bene l’impegno, ma questo disco me lo dimenticherò dal momento in cui avrò finito di scrivere questo pezzo con un punto. Epico come l’armatura di gommapiuma di un monello alla sfilata della scuola.

Non miglioriamo mica con gli ICE WAR, ma abbiamo anche intenti accademici, noialtri. Ripetiamo allora a beneficio della classe, anche dei più distratti, i cinque archetipi del Canone (grafico) priestiano: colori sparati (#1), una bestia robot (#2), artigli (#3, possono valere le zanne), scie di movimento solidificate (#4) e infine le scintille (#5). Ora guardate con attenzione la copertina di Feel the Steel, un obbrobrio imperdonabile che avrebbe anche l’idea meritevole di “rinnovare” il Canone delle copertine priestiane con l’estetica synthwave. C’è tutto, colori, bestie, zanne, timidi scintillii nel lettering e raggi laser. Ci siamo. Almeno sulla carta. La sostanza…

Venendo alla musica, il caso studio è un disastro completo. Ice War è solo una una delle one-man-band di un canadese, un certo Jo Capitalicide. Capitalicide. Diciamolo, c’è un problema di sovraesposizione, di troppa musica e troppi album tutti disponibili subito, “orizzontalmente”. In campo NWOTHM è difficilissimo a volte pescare le uscite valide, semplicemente perché alla terza cagata di seguito non ti va di investire tempo in un album nuovo. Problema del problema: questi tipi logorroici che fanno tutto da sé e riempiono lo spazio con dozzine di album virtuali che non valgono nulla. Jo Capitalicide suona, canta e scrive con la stessa attitudine e la stessa cura con cui qualcuno (ma forse lui stesso) ha ideato e prodotto questa copertina ignobile. E vi basti questo. Tempo sprecato, il suo e il nostro, se parliamo della musica. Questa sì che è una carnevalata. Poi è chiaro che l’occhio dello scienziato non giudica e si posa pure sulle manifestazioni più abiette del suo campo d’indagine. È la scienza, baby.

Figuriamoci poi se lo scienziato, il ricercatore della Verità non ancora rivelata, si ferma davanti ai confini. Così il suo occhio è catturato da un’altra copertina, quella di Back on the Streets degli indonesiani TUMENGGUNG, dei quali ignorava financo l’esistenza fino a poco fa e di cui tutt’ora ignora la pronuncia del nome. Al dotto studioso non sfuggono comunque dei tratti in comune forti con la base scientifica di estrazione europea del suo studio e riconosce colori decisi e una belva robotizzata, anche se non riesce a ricondurla ad una zoologia eurocentrica. O anche esotico-orientalista di cui ha esperienza. Poco male, ci sono due zanne geometriche a confermare definitivamente quello che l’istinto dello scienziato aveva inizialmente solo intuito.

Indonesiani, dicevamo, i Tumeggung, e nemmeno giovanissimi. Questo sarebbe il secondo album e, come a noi piace constatare, a dispetto di nome e apparato grafico/simbolico, musicalmente parlando si appropriano culturalmente in maniera decisa dell’heavy metal angloamericano anni ’80, dandone un’interpretazione pulita ma molto meno plasticosa dei germanici di cui ci siamo occupati già oggi. Che sarebbero più intitolati a suonare così e noi più ad aspettarci più pressapochismo da entusiasti appassionati del mondo lontano. Invece manco per niente. I Tumenggung ci sanno fare abbastanza seriamente e ti piazzano pure una ballatonaccia strappamutande come Deja Vu (quanta ironia in un titolo), da disco di metallo crucco. Una Symphony of Hate pare invece un campionario di topos della premiata ditta Halford e Soci. Ma in generale gira bene tutto il disco, voce un po’ sottotono (non proprio magnifica, pare quella di Gianni Nepi dei Dark Quarterer), ma non tanto da ammazzare i pezzi, tutti mediamente gagliardi. Buon disco, da consigliare a quelli cui piace restare sorpresi dalle scorribande nel sud est asiatico.

A carnevale poi ognuno si traveste come vuole e lo sappiamo che l’affollato mondo NWOTHM è una specie di Arlecchino di stili differenti, per riferimenti ed attitudine. C’è un filone, minoritario ma presente, che mescola senza shackerare troppo la NWOBHM primordiale col rock stradaiolo fine ’70, quel glam duro inteso come Suzi Quattro e Runaways. E lo fa senza risparmiare nostalgia ma pure senza fingere di vivere in un’epoca che non esiste. Non so se ricordate dei sognanti Tanith e dei più duri Blood Star. Bene, in quell’area lì si collocano i TIME RIFT, da Portland, Oregon. Li pubblica la Dying Victims Production che ormai, se seguite questo tipo di vicende, dovreste avere attenzionato già da tempo perché sta tirando fuori tanta bella robina. Il disco dei Time Rift si intitola In Flight, è il loro secondo e in copertina ha un pennuto con gli artigli bello bello. Però non è robotizzato, il movimento è cristallizzato in uno scatto infinitesimale di diaframma e i colori sono di quei bei pastelli da libri di zoologia di una volta. No, niente Canone, a questo giro.

E infatti pure la musica, come dicevo, di priestiano ha nulla o quasi. C’è tanto hard rock e una bella interpretazione data ai brani da Ruby Monet. Voce non originalissima, ma gira, funziona bene. E le canzoni girano e funzionano bene praticamente tutte, radiofoniche e dure il giusto. Un paio di queste almeno dovrebbero accontentare i palati di chi è in cerca di tracce di vecchio Metallo antico. Ovvero The Hunter, bella secca, chitarrosa e cadenzata, tanto da ricordarmi pure i Tonnerre per cui sono uscito di testa l’anno scorso (change my mind if you can). Oppure la conclusiva Hellbound, questa sì un brano metal con tutti i crismi. Poco altro da aggiungere, le coordinate le avete capite, i brani sono nove, quasi tutti potenziali singoli, presi da soli. Disco che potreste ritrovarvi ad ascoltare più di quanto pensiate, nelle ore spensierate del Carnevale e aspettando la primavera. Ah, Ruby Monet è attiva anche in un gruppo heavy doom, gli Hadean, che han tirato fuori un paio di singoli l’altr’anno. Penso che ci torneremo su, al momento opportuno. (Lorenzo Centini)

7 commenti

  • Avatar di Fanta

    Cambio la T con la B (NWOBHM) e vi chiedo: piaciuto il nuovo Tokyo Blade?

    A me tanto, a parte suoni (pessima la batteria che sa tanto di Def Leppard) e qualche magheggio sulle vocals (puzza di auto-tune).

    Disco lungo, sì, ma tanta qualità.

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    • Avatar di Fredrik DZ0

      a me invece la batteria così anni 80 piace molto… hai ragione fa un po’ def leppard e un po’ primi dokken.
      confermo che il disco è una cannonata

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    • Avatar di weareblind

      La batteria mi piace, ma l’album manca di spinta, di qualche galoppata. Ed è troppo lungo.

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      • Avatar di Fanta

        Capisco il tuo punto di vista.
        Per quel che mi riguarda: lo sento un disco simile nel mood a cose come Pyromania, Under lock and Key, Innocence is no exuse (che io adoro), Power of the Night. Mi sono quindi tolto subito l’aspettativa di qualcosa di “spinto”. Mi piace tantissimo l’atmosfera anni ottanta, anche malinconica, nonché la classe, clamorosa, con cui hanno costruito i pezzi. I riff e le linee vocali sono spettacolari.
        Arrivi un po’ stanco alla fine ma se lo ascolti in modalità random, un po’ alla volta, ti accorgi che ogni brano funziona.

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      • Avatar di weareblind

        Ottimo Fanta!

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  • Avatar di Squalo

    Andrò sicuramente ad ascoltarlo!

    Sul versante Epic segnalo Tales of War and Magic dei Ringlorn e Iriath degli Arysithian Blade.

    Entrambi dalla Grecia, sono molto debitori nei confronti dei Warlord ma non per questo meno che eccezionali.

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  • Avatar di weareblind

    Quanta roba! I Tumengungg già ascoltati, voce purtroppo pessima, non mi sono piaciuti.

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