L’angolo del rock’n’roll: quando l’heavy psych incontra il doom’n’roll…
EMU (South East Queensland, AUS) – Emu
Se per voialtri Australia vuol dire solo AC/DC ci sta, è nell’ordine delle cose. Per me significa anche Buffalo, quelli di Volcanic Rock. E allora gioisco come un canguro per l’esordio degli Emu. Io comunque a questi vorrei dirgliene quattro. Ho capito che non avete voglia di trovarvi un nome che si trova subito indagando sui motori di ricerca, ma almeno il titolo dell’album, dico io, inventate qualcosa così si trova, che se cerco “emu rock” o “emu australia” è un casino. Comunque mi calmo, tranquilli, perché Emu, il disco, poi è troppo divertente. Davvero una chicca. Una voce blues ruvida che pare provenire dalla stanza affianco. In questa qui, chitarra, basso e batteria selvaggi e fantasiosi, tra rock’n’roll, hard blues e proto stoner. Sei brani, di qui quattro abbondantemente sopra i sette minuti, sviluppi progressivi e psichedelici che fanno pensare che questa gente qui, con molta più ruggine e polvere e sabbia, non stia giocando una partita così diversa da quella di Elder e pattuglie simili. Però gli Emu, da bravi compatrioti di Crocodile Dundee, sono ruvidi ed ineducati. Ineducati, attenzione, non maleducati. Intendo selvaggi, liberi, tanto di dare mazzate quanto di partirsene per certi viaggioni con due cosette nella borsa. Gente che resiste bene al clima arido dovuto al sole e alle chitarre elettriche roventi, inarrestabili. Come i Buffalo, insomma. Will We Ever Learn?, si chiedono con gli ultimi nove minuti della traccia finale, romantica, disillusa, sconfitta e mai arresa. E che riff, signori. Uno degli esordi migliori dell’anno, pochi dubbi. Non solo in campo heavy psych.
FANGUS (Montreal, CAN) – Meet the Reaper
Un esordio piccolo piccolo, un Ep soltanto, dal Quebec, cinque becchini, paiono rimasti all’epoca in cui la musica ed il cinema erano un’altra cosa. Hanno una scheda anagrafica su Metal Archives ma io il Metallo, in senso stretto, non ce lo sento. Sulle prime paiono i Sonics (hail!) Che prendono i funghi allucinogeni insieme ai primi Deep Purple, quelli anarchici di Rod Evans. E il trip è bello preso a male. Capita se vai a funghi per cimiteri. L’inizio dell’Ep (Pallbearer) è bello rock’n’roll, farcito di hammond da strabordare. Poi i tempi progressivamente rallentano e i toni si fanno più macabri. In Colors of Death il trip psichedelico pare ormai senza ritorno, ma ci si riacchiappa dopo con Atomic Teaser (e la parola “Atomic” vi dice nulla?) E col suo ritornello, contagioso come la peste. Vabbè, avete capito, solo cinque brani, ma intanto una goduria. Psichedelia horror anni ’70 che sa tanto di doom quanto di rock’n’roll. Se queste sono le premesse, questi qua rischiano di possedere le nostre anime, alla mezzanotte. Loro e la loro armata di zombie.

SACRI MONTI (San Diego, CA) – Retrieval
Del fatto che la Tee Pee, gloriosa etichetta niuiorchese, non ne voglia sapere di sbagliare un’uscita, noi non possiamo che gioire ed essergliene grati, parecchio. Dopo aver sudato coi Limousine Beach (che nel frattempo, ahi, si sono sciolti), fatto le bolle con la cingomma assieme agli Sweat, sgasato con gli Stepmother e scapocciato con il ritorno dei Danava, oggi altre due uscite, due ritorni, quello dei Sacri Monti e quello dei Satan’s Satyrs. Dei primi si parla un gran bene in giro. Giustamente, aggiungo io. Ma di chi si parla male ormai, d’altronde? Si legge un po’ dappertutto che i numi tutelari sarebbero Deep Purple e Uriah Heep. Ma attenzione: se l’affermazione è pure parzialmente vera, specificherei che parliamo al massimo dei Purple anarchici di Rod Evans e degli Heep di …Very ‘Eavy …Very ‘Umble. Per il resto, Retrieval è sostanzialmente un disco rock’n’roll. Oh, io ve lo dico perché poi magari vi aspettate qualche parruccone che se ne parte con un falsetto. No, i Sacri Monti, o Sacrimonti, che ne so io, restano “n’roll”. Quindi: l’inizio con Maelstrom è proprio gagliardo, gli organi girano assieme alle chitarre e poi le strofe tardo beat, ma con il blast beat sotto. Poi in realtà, forse mi sbagliavo io, altri numeri veloci a ‘sto giro non ce ne sono. Poi Desiderable Sequel è, pur coi suoi sviluppi concitati, nella media una ballata. Intermediate Death pure non perde mica la testa, anzi, resta malinconica e ragionata (buon assolo blues, che male non fa). Brackish/Honeycomb viaggia tra tardo beat e proto prog. Moon Canyon una doverosa spippacchiata acustica. More Than I, in chiusura, è retro-psych meditato, con tanto di viaggetto floydiano nel mezzo. In fondo alla fine sì, avete ragione voi, di rock’n’roll c’è l’attitudine, ma è un disco per rimastoni (nel gergo bastardo della mia adolescenza: “quelli che ce so’ rimasti”, a voi capire dove e con che cosa). Però in fondo mi sa che son solo delle brave persone indie con riferimenti datati. Bestemmio? Ma se io forse il miglior revival hard rock, e saranno passati almeno dieci/quindici anni, l’ho sentito suonato da quei bravi ragazzi dei Black Mountain!

SATAN’S SATYRS (New York City, NY) – After Dark
Venendo alla seconda uscita Tee Pee di oggi, i Satan’s Satyrs sono di stanza a New York ma originariamente provengono dalla Virginia. Clayton Burgess, chitarra e voce, ha suonato il basso negli Electric Wizard dal 2014 al 2018. E questo dovrebbe dirvi qualcosina sull’attitudine ed i gusti estetici. A livello di stile però i suoi Satyrs sono molto più rock’n’roll, diciamo almeno doom‘n’roll, dai. Per certi versi sembrano accostabili agli Uncle Acid & the Deadbeats (quelli classici, non quelli dell’ultima meraviglia), perché come loro rifiutano qualsiasi cosa che sia più moderna di una certa data. Solo che i Satyrs almeno al ’74 si spingono, ci senti i New York Dolls, i T-Rex. Non i Beatles, eh, così chiudiamo il confronto con i baronetti inglesi dell’heavy psych odierno. E quindi i Satyrs non sono così attenti e precisi alla costruzione di una melodia o atmosfera malsana. Sono più sguaiati, sicuro. Non è un male, figuratevi, se lo chiedete a me. Hellin’ It Like It Is è un bell’inferno, Deadly Again ci mette una melodia appiccicosa, Quick Quiet Raid suona rumorosa come i Blue Cheer, è ferma a quegli anni e latitudini lì. Il salto lo fa What the Winds Brought, con una ventata più albionica nell’incipit elettroacustico, poi l’atmosfera si fa macabra e morbosa, come il necrodoom che preferiamo, ma restando sui binari del rock’n’roll anni ’60 e ’70. Gagliarda. Gagliardi i Satan’s Satyr. Se vi viene voglia di scapocciare e scatenarvi tra le lapidi di un cimitero, la musica ce la mettono loro. (Lorenzo Centini)

