Avere vent’anni: ROTTING CHRIST – Sanctus Diavolos

Esattamente vent’anni fa recensii Sanctus Diavolos sul Metal Shock cartaceo. Gli misi 8, ma con una motivazione particolare: scrissi che, pur non essendo un bel disco, era talmente personale, unico e coraggioso da riuscire a distinguersi in qualche modo. Aggiunsi anche, come postilla, che avrebbe meritato moltissimi ascolti per essere compreso appieno, ascolti che ovviamente erano impossibili coi ritmi delle pubblicazioni cartacee, quando ogni quindici giorni venivo riempito di promo da recensire con tempi strettissimi. Sono passati vent’anni, quegli ascolti necessari sono stati compiuti, e quindi rieccoci qua.

Sanctus Diavolos è il disco sperimentale dei Rotting Christ. Definizione strana, per un gruppo che quantomeno fino a quel momento era abituato a cambiare pelle in continuazione. La loro evoluzione, però, aveva sempre portato a dischi compiuti. Magari di transizione, magari di passaggio e magari non perfettamente riusciti, come era stato Khronos, ma che davano sempre l’impressione di avere una precisa idea di cosa la band volesse fare. Con Sanctus Diavolos sembrava come che Sakis volesse rimescolare le carte senza sapere esattamente in che direzione andare. Da un lato si è affidato a Christos Antoniou dei Septic Flesh, che ha infarcito l’album di sezioni corali e orchestrali, cercando di amalgamarle il più possibile con l’atmosfera cupa e melmosa tipica dei Rotting Christ, rielaborandola; dall’altro lato ha frantumato le composizioni, destrutturandole e rendendole il più possibile moderne, o meglio moderniste, nel senso in cui questo termine poteva avere un senso nella Grecia del 2004. Il mixaggio ai Fredman Studios di Fredrik Nordstrom, poi, ha reso il tutto più glaciale e, da un certo punto di vista, meno mediterraneo.

Il risultato è un disco complesso, poco immediato, pesante da digerire se ascoltato tutto d’un fiato, con mille spunti e mille sfumature che continuano a rivelarsi ad ogni ascolto, in cui Sakis spesso sceglie la strada più complicata. Le melodie e gli stilemi caratteristici della band vengono rivoltate, complicate e reinterpretate, anche se non c’è mai dubbio che questo sia un disco dei Rotting Christ. Prendiamo ad esempio Shades of Evil, in cui un riff ascrivibile alla primissima parte della loro discografia viene fratturato, quasi scomposto, per poi essere incastonato su una ritmica storta, con quelle atmosfere morbose che ti si appiccicano addosso come il caldo umido dell’estate greca, restituendoti una sensazione di disagio e fastidio. O ancora la sinistra You my Cross, con un ritmo sincopato e frenetico su cui si accumulano orchestrazioni, soluzioni corali e chitarre stoppate, ma che a un certo punto rallenta aprendosi con un riff che ricorda le atmosfere di Triarchy of the Lost Lovers e A Dead Poem.

Tutto ciò però restituisce una sensazione di incompiutezza e indecisione come mai si era sentito nei Rotting Christ. I due pezzi suddetti, insieme alla maggior parte di quelli presenti sul disco, non sono cose che uno tende a riascoltarsi, e difficilmente potrebbero essere considerate belle canzoni. Le cose migliori di Sanctus Diavolos, alla fine, sono quelle più lineari, cioè le prime tre e Doctrine. Anche queste sono lungi dall’essere banali o impersonali, e anzi riprendono precisamente tutte le caratteristiche sperimentali di cui si è parlato, ma danno la sensazione di essere state composte con l’idea di scrivere un bel pezzo, più che di fare un ragionamento sul proprio stile. Visions of a Blind Order è veloce e più classicamente black metal, per quanto peculiare, e paradossalmente è quella che anticipa meglio ciò che ci sarà sui dischi successivi; si può fare lo stesso discorso per Thy Wings Thy Horns Thy Sin, seppure qui gli arrangiamenti corali abbiano un peso maggiore; Athanati Este è diventata un cavallo di battaglia dal vivo, forse l’unica da quest’album, con quel ritmo martellante da marcia dell’esercito degli orchi; e Doctrine è la migliore di tutte, un midtempo opprimente e maligno che riesce a mostrare il più perfetto equilibrio tra tutti gli elementi del disco. Quell’8 se lo meritava tutto, alla fine. (barg)

3 commenti

  • francesco gentile
    Avatar di francesco gentile

    Album stupendo ! Il primo amore è stato Genesis, album con cui li ho conosciuti e visto il loro live a Massafra (TA). Sinceramente ogni album è un capitolo del loro cammino artistico, il sound lo riconosci subito, il loro marchio di fabbrica, ma sanno darti ciascuno una sensazione diversa. Un saluto a tutti voi.

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  • Avatar di Bonzo79

    chi viene a vederli a Bologna con tanto di Borknagar e Seth????

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  • Avatar di Snaghi

    Concordo. Mi sarebbe piaciuto leggere la tua recensione anche dell’ultimo.

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