In Nomine Doomini vol. 8: SERVANTS TO THE TIDE, SARAJAH, ALTAR OF OBLIVION
Da un po’ non davamo notizie in campo doom, di doom ortodosso, parlo. Effettivamente non è che le uscite in questi tempi siano state moltissime. Restando comunque nei confini del doom più ortodosso, sabbathiano e/o epico, ne abbiamo messe insieme tre, oggi, nei confronti delle quali nutrivo qualche aspettativa (a volte più, a volte meno). Aspettative, per quanto moderate, non sempre eguagliate da quanto ascoltato. Ma procediamo senz’altri indugi coi nuovi dischi di Servants to the Tide, Sarajah e Altar of Oblivion.

Il precedente album, l’omonimo del 2021, dei SERVANTS TO THE TIDE mi era abbastanza piaciuto, e se non ve ne parlai è forse perché all’epoca ero ancora un po’ troppo timido, su queste pagine. Quindi aspettative ce ne erano, unite al fatto che, essendo i nostri germanici e dediti all’epic doom, le antenne erano belle che direzionate, sia mai dovesse esserci un nuovo exploit tipo Atlantean Kodex o Wheel. E invece no, Where Time will Come to Die restituisce, a distanza di tre anni, una band che è persino tornata indietro e che ti fa rimpiangere di dare credito sulla carta a qualcuno perché tedesco. L’iniziale With Starlight we Ride ti ricorda che, in termini di esibizione di innato cattivo gusto, di rivali ne hanno pochi (“kitsch” d’altronde è una parola tedesca). Ti viene da pensare, con quegli “AH-AH-AH” alla fine dei primi versi, che il cantante l’abbia registrata dopo qualche birra di troppo, ma soprattutto il fonico, che ha compiuto un vero disastro lungo tutto il disco, appiattendo tutti i suoni (le chitarre persino un pelo troppo metalliche, per me) e schiacciandoli con le linee vocali troppo risaltanti su tutto. E mettere la voce in tale risalto rispetto a chitarre e batteria, in un disco metal, non lo fai nemmeno se hai a disposizione una voce splendida e linee vocali formidabili. E non è certo questo il caso, anzi. Un difetto macroscopico che rovina del tutto l’ascolto di un disco comunque non certo memorabile. Gli amburghesi sono competenti ma nient’altro. Alcuni momenti, tipo il brano If the Stars Should Appear, rivelano una costruzione più ragionata e meno da osteria (solo pochissimi “AH-AH-AH”), uno sviluppo più interessante (non troppo). Con quel cantante e quel fonico però che vuoi farci. Per ora i Servants to the Tide non sembrano in grado di regalarci migliori soddisfazioni in futuro. Spero di sbagliarmi, il genere è quello che spesso si affina col tempo, con l’esercizio e l’esperienza. Però mi sa proprio che non sarà questo il caso.

Vediamo di rifarci con l’esordio dei finnici SARAJAH, con un paio di membri in comune coi Fimir di cui ci occupammo tempo addietro. Come in quel caso, dietro c’è la benemerita Argonauta nostrana. Le coordinate però sono meno fantasiose/fantasmagoriche e più ortodossamente sabbathiane e dall’approccio accostabile ai primi Trouble. Propositi decisamente lodevoli, quindi. I risultati però meno. Non è questione di cattivo gusto, in questo caso. Anzi, i Sarajah suonano ben competenti, completi, come suono e atmosfera generale. Ben misurati. Però i riff si susseguono, la cadenza prosegue costante, le melodie non scalfiscono, intaccano, sorprendono. Tutto molto medio, molto piatto. Si fatica anche ad estrapolarne un brano, tanto il risultato è compatto e omogeneo. Ma non nel senso migliore. La realtà, purtroppo, è che questo Sarajah (questo il titolo) è un album noioso. Mi duole dirlo, perché seguire le novità finniche in campo doom è sempre un piacere, oltre che un “dovere”. E perché la Argonauta prosegue il pregevole lavoro di promuovere realtà di buona qualità, ma minori. Le manca ancora il colpo, il disco del salto, forse. Non credo glielo possano far fare i Sarajah oggi, con questo disco qui. Onestamente, non credo neppure se si siano divertiti troppo loro stessi a suonarlo.

Ci rifacciamo veramente invece con In the Cesspit of Divine Decay, gradito ritorno dei danesi ALTAR OF OBLIVION, che quasi potremmo considerare dei veterani dell’epic doom (quarto album, il primo del 2009), non fosse un genere che decanta su tempi lunghissimi. Comunque stiamo là, tra Candlemass e Solitude Aeturnus, dove ci piace stare, insomma. Diciamo che rispetto agli altri nomi di oggi, esordienti o poco più, gli Altar of Oblivion, che non sono dei fuoriclasse, intesi, scrivono canzoni riuscite, con riff riusciti, dinamiche varie e melodie solenni e riuscite. Il segreto di Pulcinella, insomma. Nothing Grows from Hallowed Ground, in apertura, è un signor pezzo, riff spaccacollo e coro subito memorizzabile. Non un brano fuori dall’ordinario, innovativo o cosa, ma una bella canzone, fatta e finita. E la successiva The Fallacy fa pure meglio, maggiore dinamica, maggiore lirismo. In generale tutta la prima parte del disco, che poi sarebbe un concept sulle guerre mondiali, prende bene. Cede un po’ fisiologicamente, poi il coro di Altar of Oblivion, la canzone, ha la sua malia, mentre The Night they Came torna ai livelli delle prime due per dinamica e coinvolgimento. Infine il disco tra mesti strumentali e sgroppate più heavy va verso conclusione, strano a dirsi, senza troppi scossoni reali. Ma nemmeno cadute nella noia o nel cattivo gusto. Insomma, un disco buono, a tratti anche più, con una bella dinamica complessiva e singoli episodi riusciti che, presi singolarmente, stanno in piedi da soli e coinvolgono. Metteteci una bella copertina (sai la novità) del muscoloso ascolano Paolo Girardi e possiamo dire, in tutta tranquillità, che non solo In the Cesspit of Divine Decay è il miglior disco tra quelli recensiti oggi, ma anche che in campo doom è sicuramente una delle uscite migliori degli ultimi mesi. Non stupitevi troppo se finisce menzionata tra le altre robe garbate, verso la fine dell’anno. (Lorenzo Centini)

Un paio di segnalazioni a tinte emotive autunnali e con derive doomgaze in un caso (Iress) e heavy rock/psych/occult doom nell’altro (Dool).
Dischi usciti quest’anno già da prima dell’estate e che meritano una (ri)scoperta, entro la cornice settembrina.
Al microfono due donne di eccezionale talento, ovviamente con due stili molto diversi.
https://youtu.be/ybL_zAmMad0?si=agn470E79BWVwgqT
https://youtu.be/HEgYFQXmP9g?si=-mW4fZ9vZOUBFhlF
"Mi piace""Mi piace"
Li avevo ascoltati, ma non mi aggradano molto… Nel campo, pur con tutte le premure e gli scongiuri, aspetto l’esordio dei Vidrio Echo.
"Mi piace""Mi piace"
Perché sei de Aprilia e quindi talebano per definizione, Centì.
Pensa che anche mio figlio piccolo è nato ad Aprilia durante il primo lockdown del 2020. E a suo modo anche lui è un estremista. Molto più di me che sono cresciuto a pane, black metal e death svedese.
Ci vivi ancora il provincia di Latina?
"Mi piace""Mi piace"
None, sono andato via nel 2012 e da sei anni sto in Lombardia. Ma il puzzo della Palude non te lo togli mica. Grande Aprilia.
"Mi piace""Mi piace"