Mind Burns Alive, il disco emo-doom dei Pallbearer

Immagino sia soprattutto una questione di aspettative. Io i Pallbearer, vi dico la verità, non è che li seguissi proprio assiduamente. “Ma come, proprio tu?”. Beh, sì, ma sapete che in musica non è che si percorrono strade sempre lineari, sicure. Insomma, anche se brani come Worlds Apart sono in grado di ascoltarli a ripetizione. Anche se, visti dal vivo, i quattro dell’Arkansas sono un’esperienza assolutamente rimarchevole. Proprio dal vivo avevo preso coscienza della loro rilevanza, potenza turgida ed emozioni opache, meste. Eppure ancora non li avevo in cima alla mia lista degli ascolti. Chissà perché. Forse perché certo doom, questo genere di doom, fa un po’ storia a sé. Quello figlio dei Warning. Sicuro non è una forma appariscente, gotica, macabra, epica, nostalgica. Insomma quel genere di emozioni forti, sì, ma anche piuttosto estetiche. A volte quasi pensavo fosse solo tipo uno sludge mischiato con un po’ di prog. Non è roba che di partenza pensavo mi interessasse molto. Mi sbagliavo comunque, ovvio.

Però pure il Barg, recensendo l’ultimo album, non è che mi avesse invogliato molto, definendolo moscio. Ora, contestualizzando, il Barg è uno che ascolta i Red House Painters soffocando le lacrime col cuscino, per cui quando usa la parola moscio non è detto che gli dia la stessa accezione dell’uomo della strada. E infatti quello non era mica un giudizio negativo, quello del Barg, anzi era spiazzato. Forgotten Days, ripreso ora, a me pare proprio bello. Bene, ora, sentite allora questa: Mind Burns Alive, il disco di quest’anno, è ancora più moscio del precedente. E ora però vi sbagliate voi, voi che quindi state già passando oltre, se ne avete tratto conclusioni drastiche. Perché c’è mosceria e mosceria, e questa qui è magnifica. In pratica, per farla breve, riprendere il discorso del Barg e potenzialmente chiudere qui il discorso, è come se i Pallbearer avessero scelto cosa fare e di non restare sospesi tra due modalità (heavy e mestizia romantica), abbracciando ora in toto quella più disperata delle due. Con tonalità sonore più lievi, ma emozioni pesantissime. E quindi no, non è un disco soft, o un disco indie, era solo il momento di abbassare un poco gli amplificatori. Poco, eh. Perché il silenzio, lo spazio tra le note, a volte ha una gravità che tutto quello che ci puoi provare a infilare, tra le note, per provare ad appesantire tutto, spesso non ha. Giri di parole, i miei, per dire in sostanza che non dovete assolutamente sottovalutare questo disco, fatto di dolore dall’inizio alla fine.

 

Diciamo che almeno tutta la prima parte del disco è fenomenale. Chiaro, dovete magari avere una ragione anche voi per lamentarvi di come vanno le cose. Se per voi invece va tutto a gonfie vele, ci sta che l’attacco gentile di Where the Light Fades non abbia quell’effetto che ha (una persona a caso) sul sottoscritto. Synth, chitarroni non se ne sentono per interi minuti, anzi, in realtà non arrivano proprio, se non proprio nel finale e solo dopo che il picco emotivo s’è toccato per stratificazioni stupende di linee vocali, arpeggi elettrici e no. Un affresco, un affresco disperato. Poi arriva la canzone che dà il titolo al disco ed ha un taglio più tradizionale. Parte col riffone, questa sì. Poi la strofa è altro. Post-rock. Quello americano, quello anni ’90. Quello che sa di lingue asfaltate, che tagliano boschi e costeggiano parcheggi deserti, piscine abbandonate, benzinai. L’Arkansas, per come me lo immagino io. Ma una melodia, invece, proprio compiuta, quella del ritornello, ci permette di non riprendere ad usare a sproposito la parola progressive. Mentre invece a un certo punto un riff, una variazione, ci fa tornare in mente quell’altra parolaccia che è southern. Il soffio al cuore lo fa venire la successiva, però, Signals. Occhio, non la direste davvero un pezzo metal, per un bel pezzo della sua durata. Potreste confondere degli amici, quegli amici che solitamente non condividono i vostri gusti e vanno a vedersi i festival giusti. Perché riprende dalla fonte, di nuovo, il post rock anni ’90 americano, delle modalità melodiche ed emotive che poi certi artisti indie moderni (e pure qualche fantoccio) hanno ripreso negli ultimi anni. Poi, per fortuna, per cavarmi dall’imbarazzo, arrivano i chitarroni anche qui (non proprio “oni-oni“). Però poi c’è un punto, dopo il secondo ritornello, in cui la situazione prende una piega davvero troppo emotiva, con quella chitarra che tiene il tempo in sospeso. Ecco, emo è la parola giusta. Anche qui, non parlo mica di ragazzini con piercing e eyeliner. Parlo sempre, ancora, di quell’America e di quel periodo, tardi Novanta, primi Duemila… No, forse è il caso che mi fermi qui, voi tanto non indaghereste. Però emo-doom ci sta come definizione, per Signals, anche se Ciccio non mi consentirebbe mai di usarla. Chissà, magari un giorno qualcuno dirà che la prima volta che s’è parlato di emo-doom è stato per una recensione su Metal Skunk. Che stronzata. Però Signals è superba. Davvero, credetemi. Ti viene proprio voglia di ascoltarla mentre soffochi le lacrime con un cuscino.

E dire che non scambiereste Brett Campbell per Giacomo Leopardi

C’era quel tipo australiano che incontravo l’estate al Brutal Assault, finché ci andavo. Amico di amici. Alto, tatuato, abbronzato, capellone, barbone, tatuato, occhi di ghiaccio, alto un Madonno e mezzo. Sosteneva che i Pallbearer dal vivo gli facessero venire un’erezione. Non scherzo. Quando cominciarono a suonare, al Metal Gate, avevo gli occhi chiusi per beccarmi tutto il suono al centro della fronte, senza distrazioni. A un certo punto però schiudo gli occhi, sono in mezzo alla comitiva e c’è l’australiano che mi sta guardando, quello che poco prima mi aveva descritto l’effetto che gli facevano I Pallbearer. Bene, sorride, lascivo, e col braccio mima l’erezione. Rido. È una battuta. Però anche nei vecchi Pallbearer (assurdi dal vivo) cosa ci fosse di testosteronico non so. Qua si piange, parecchio. Anche i maschi piangono, si sa, non siamo retrogradi, ma magari non si eccitano contestualmente. Se lo fanno, beh, buon per loro. Amico australiano: a me Mind Burns Alive sta piacendo un casino. Un ascolto vorace, placante. Perché non c’è sempre bisogno di stare a cazzo duro, anzi, a volte c’è bisogno meglio di starsene per i cazzi propri, perché se non sorridi poi la gente ti guarda male. Insomma, c’è bisogno di starsene per i fatti propri senza raccontarsi che le cose hanno un senso. Bene, perfetto, c’è un disco emo-doom che devo assolutamente consigliarvi per quei momenti. È Mind Burns Alive, dei Pallbearer, che parte in maniera fenomenale, con tre brani su sei (lato A?) fenomenali e il resto comunque bello-bello, forse poco meno bello, sennò magari era un capolavoro o quasi. Oppure sono semplicemente io che sto ascoltando Signals e Where The Light Fades da giorni. Compulsivamente. (Lorenzo Centini)

4 commenti

  • Immagino c’abbiate presente On Dark Horses di Emma Ruth Rundle. Ecco, a tratti mi sembra di ascoltarlo di riflesso. Poi però si deflagra, qui. Per fortuna.
    Bel disco.

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  • Il pezzo secondo me parte noiosetto, poi gradualmente diventa una figata! Ma hanno cambiato direzione o sbaglio? io ricordavo facessero roba tipo gli Yob. Comunque mi sa che ai Pallbearer piacciono molto i Katatonia, soprattutto al chitarrista che pare un incrocio tra Enrico Ruggeri ed il soldato Palla di Lardo. Grazie della recensione, corro ad ascoltarmi il disco!

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  • il gruppo doom meno talentuoso in circolazione

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  • Where the light fades è al momento la canzone più bella di questo 2024… e ci sono ottime probabilità lo resterà fino alla fine

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