Cambiare tutto al quinto disco: NECROWRETCH – Swords of Dajjal
Ho ricontrollato per essere sicuro che stessi ascoltando il gruppo giusto, cioè i francesi Necrowretch. Ed erano realmente loro. In principio, in sostanza, suonavano death metal. In quell’embrione si inserirono il black metal e il thrash e la risultante, qualche anno più tardi, fu l’ottimo album di debutto Putrid Death Sorcery.
Non so se io preferisca i vecchi Necrowretch o i nuovi, ma una cosa è certa: al momento dell’ingresso di Wenceslas Carrieu – un polistrumentista che suona praticamente di tutto al servizio di svariate band, e che, soprattutto, offre un prezioso apporto in fase di composizione – un significativo sentore scandinavo ha fatto breccia nel sino ad allora inviolato comparto sonoro dei transalpini. E, per la prima volta, con il nuovo Swords of Dajjal, questi assumono una forma che definirei assolutamente matura se non addirittura definitiva. Il problema è che non è una forma distante da quella dei ricopiatissimi Dissection e dei Necrophobic, fatta esclusione per quegli ammiccamenti all’heavy metal classico che, in loco, spesso e volentieri germogliano (a dire il vero in Vae Victis ne individuiamo uno piazzato lì ad arte, ma è un’eccezione che solo la strumentale Daeva ripete alla stregua di una abusata regola). La buona notizia per noi è che le canzoni, ora, girano come mai in passato.

Un po’ rimpiango il suono scarno, quasi thrash, di The Ones from Hell, la cui title track attaccava nera e risoluta come un qualunque classico dei Necrodeath. Ma, vi dirò, superato lo sconcerto e il relativo sconforto iniziale, nell’affrontare le varie fasi di Swords of Dajjal mi sono trovato assolutamente a mio agio. Quasi mi aspettassi questa tipologia di disco sin da subito.
Il singolo è Dii Mauri e ha un titolo che pare il nome di un drone fotografico. Non so perché, forse è colpa di Wenceslas Carrieu o forse del loro leader e cantante, Vlad. Il titolo del disco, invece, pare una di quelle robe esotiche che ci rifilavano i Kalmah un bel po’ di tempo fa (con titoli come Berija, Roija e via discorrendo, quasi fossimo nel settore giovanile di una squadra di calcio dei Paesi Baschi).
Al primo ascolto, arrivato alla quinta Numidian Knowledge ero letteralmente scosso perché nessuna traccia si assestava su di un livello anche leggermente inferiore a quello delle precedenti. La seguente Vae Victis si è rivelata anch’essa fantastica, e così si è proseguito fino all’epilogo, la devastante Total Obliteration. Non un calo, non uno. Arpeggi infernali alla Dissection, una pioggia di melodia mai stucchevole o cacofonica, e una gestione sapiente dei ritmi senza spingere in modo eccessivamente sull’acceleratore e sui blast beat, e nemmeno su ciò che risiede ai loro antipodi. Una produzione che è l’opposto di quella di The Ones from Hell, piena, ma non artificiosa, in favore di suoni potenti e ariosi. In definitiva potrei tranquillamente dire che Swords of Dajjal sia il miglior disco dei Necrowretch, e, in parallelo, il meno personale che hanno pubblicato in quindici anni netti di carriera. Puoi suonare derivativo quanto vuoi se i risultati che metti a segno sono questi: prenotati per la Poll di fine anno, e sto scrivendo questo in data primo marzo. (Marco Belardi)

CHE DIO VI BENEDICA…
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