Saints Dispelled, i MASTER stanno invertendo la rotta

Un mese fa e oltre mi sono prenotato per recensire il nuovo dei Master, Saints Dispelled. Voglio un tale bene a Paul Speckmann che, in questo momento, mentre mi accingo a scrivere di lui e della musica, è come se stessi per commentare l’operato del macellaio dietro l’angolo. Quello che tiene le carni che provengono da Fiorenzuola, alto Mugello. Zona di funghi porcini grossi come sgabelli.

Se ci ho messo trenta giorni per sedermi sul mio, di sgabello, e buttare giù due righe, è perché francamente il quindicesimo album dei Master è un argomento che mi mette assai in difficoltà. Dal momento che loro realizzano due tipi di album, io non so che dirvi a riguardo se non che Saints Dispelled è del tipo due.

I Master fanno l’album death metal vecchissima scuola – Possessed, con cui diedero forma al genere – oppure si adagiano su questo death n’roll che a parer mio è funzionale nel dare vivacità alle scalette dei loro live. Tuttavia su disco rende perlopiù al primo ascolto, dopodiché lo metti via e non ci rimetti mai più mano. Il difetto è il solito di sempre: Paul Speckmann ha sempre scritto musica godibile, ma mai musica memorabile. Non c’è una sola canzone dei Master che mi canticchi o mi ricordi a menadito, solo ricordi scollegati come in un vasto collage del quale mancano fin troppi pezzi. Eppure li ho ascoltati tutti e quindici, e titoli come Master, o il secondo con Masvidal e la batteria orribile, non li ho soltanto ascoltati: li ho consumati senza assimilarne granché.

Con somma soddisfazione ho assistito, a partire grossomodo da The Spirit of the West – la cui copertina sembrava un omaggio all’ebreo di Peaky Blinders – al ritorno dei Master in direzione del death metal spogliato da velleità rockettare: e infatti i successivi album me li ero goduti un po’ tutti, specie nel lasso temporale riguardante Slaves to Society e The Human Machine. Partendo da quel suono scarno e rudimentale, potrei affermare che invertirono la rotta più o meno dopo aver pubblicato il materiale unreleased del 1985.

Nessuno l’ha notato, ma i Master stanno invertendo nuovamente quella rotta, è così da qualche anno. Riecco dunque il death and roll, e quel che percepii fra le righe di Vindictive Miscreant è ora una dominante.

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Saints Dispelled – in copertina uno che è morto in lacrime, probabilmente un tifoso dell’Atalanta dopo aver recuperato la gara con gli altri nerazzurri – è tutto sommato un buon album, ma, giunto al suo compimento, non ne ricordo una sola nota. È prodotto più che decentemente, con un rullante a pieno bordone e pochissime concessioni alla tecnica (l’assolo di basso di The Wiseman è una fra queste e avrebbero potuto risparmiarcela). Walk in the Footsteps of Doom è in assoluto la sua canzone più riuscita perché sposta il tiro ai margini del black metal dei Darkthrone dei primi Duemila e dei nostri Whiskey Ritual. È una roba che sono sicuro scatenerà un pandemonio sotto al palco. Credo inoltre che, se Paul Speckmann avesse intenzione di spremere al meglio questa vena rock n’roll di cui si fa fregio, dovrebbe sviluppare seriamente tali echi di black metal nella sua musica. Perché gli riesce dannatamente bene farne uso. Il problema è che certi artisti sono consapevoli di essere stati parte integrante di un movimento ai suoi albori, i cosiddetti prime movers. Al momento di fare qualcosa di differente non scelgono la cosa giusta, bensì l’opzione che gli possa parare maggiormente il culo, e Paul Speckmann è dentro a questo limbo all’incirca da metà anni Novanta.

Tom Hardy

Anche nel caso di Walk in the Footsteps of Doom il bassista e leader del gruppo si concede l’ennesimo assolo alle quattro corde: Ralph Hubert ti butterebbe in un cassonetto, carissimo. Il resto è materiale nella media, dagli Slayer citati in Saints Dispelled a qualche brano sinceramente carino come Destruction in June. Che sia il caso ora di pubblicare del materiale inedito del 1984 e farsene influenzare per i prossimi cinque dischi? Dai, dai, dai! O come in Boris 4, in inglese. (Marco Belardi)

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