Collezione autunno/inverno, parte prima: 5 dischi per guardare il mondo appassire
E niente. I TENHI ci hanno messo dodici anni a dare un seguito a Saivo. Boh, sanno loro come li hanno trascorsi. Di sicuro ad ascoltare la loro musica non viene MAI in mente quell’ impressione tipo “buona la prima”. Già, ad ascoltarli ci vorrebbe molto tempo e dedizione, per venirne a capo. Più di quelli che la stramaledetta vita moderna (a l’anima de li stramuort) ti permette di dedicarci. Per ascoltarli, non dico per recensirli per bene. Con un pezzo della lunghezza che meriterebbero. Roba tipo Belardi in vena di straordinari. Così a cinque mesi dall’uscita di Valkama innanzi tutto rimediamo del ritardo e ne parliamo, consapevoli che ci vorrebbero altri sei mesi, magari, per venirne a capo. Perché sono settantacinque minuti dal peso specifico assurdo, pianoforti leggiadri, voci sepolcrali, canzoni meste, composizioni senza tempo. Un disco dei Tenhi meriterebbe sempre un trattamento diverso. Questo particolarmente. Lo ritroverete molto probabilmente nei miei dieci annuali. Perché Valkama, la canzone, ha un giro di pianoforte indimenticabile. Perché Aina Sinininen Aina conclude un lungo viaggio con una serenità pacificata che non vuol dire vita. Perché i Tenhi fanno musica con logiche e tempi/dimensioni che purtroppo non sanno/possono permettersi molti altri.

Alcuni si ricorderanno dei/delle/dellu Subrosa. Qualcuno persino degli/delle/dellu Otolith, che del/della/dellu band originari* ha tratto idee e buona parte dei/delle/dellu musicist* (che fatica…). Quella però che era un po’ l’anima dei primi, non convogliata nei secondi, era Rebecca Vernon, ora riapparsa come THE KEENING, con un album, Little Bird, che per lo meno ai primi ascolti ci dovrebbe colpire assai e mandarci in sollucchero. Perché l’attacco con Autumn rievoca del tutto (e molto meglio di quanto riesca agli ex sodali) le atmosfere della band madre. Anche senza ricorrere a chitarre dure e riff post-metal. Perché poi Eden sfodera organi chiesastici che manco Josh Silver. Fosse tutto quanto al livello della prima parte, Little Bird sarebbe un album ben significativo. Un po’ si perde, o meglio: non concretizza. Non è un gran problema, perché in fondo poi la serie finale, The Hunter I e II e The Truth, mi convince a mantenere comunque alte le aspettative per i futuri sviluppi, anche tra post-tutto cascadico e magari folk-doom sulla scia cupa di una Rose Kemp (e speriamo si rifaccia viva pure lei). Magari come ascolto crescerà col tempo. Per ora, menzione doverosa.

Eravate rimasti inorriditi dal prêt-à-porter black metal degli esordi di MYRKUR? Benissimo. Sarete lieti di sapere che di metal, in generale, la nostra cara fotomodella danese non ne suona più. Salvo pensare che lo siano quelle occasionali schitarrate o doppiopedalate che scimmiottano la musica che piace a noialtri e che vengono fuori così, de botto e senza senso, durante l’ascolto di Spine. E che, occhio, sono sempre equalizzate bassissime, per non spaventare nessuno. Per il resto, questi trentatré minuti sono cosucce un po’ folk, un po’ electro, un po’ 80. Autunnali, sì. Uggiose, ma tentando un po’ di stile. Tentando. Perché in fondo sappiamo tutti il successo assurdo che sta arridendo nuovamente a Kate Bush. Si sa mai che con un po’ di impegno pure Myrkur potrebbe far infilare un suo pezzo in qualche colonna sonora seriale. Però servono le canzoni, e il mestiere Myrkur non lo conosce. Finché si doveva cavalcare l’onda viking-chic ce la faceva pure, più o meno. Scimmiottando quei gruppi bravi ma pallosi che si sono dati al folk norreno e che piacciono a molti. Qua, se vuoi fare pop sofisticato anni ’80, ti serve il pop. Nel senso delle canzoni, non della mondanità. Vabbè, ma insomma, perché ce ne stiamo occupando? Bella domanda. Perché un pezzo si chiama Blazing Sky? Ma per favore. Si salva l’ultima traccia, ma voi ormai sarete già altrove. Tempo rubato all’ascolto dei Tenhi.

Effetto ottobrata con i 1476. O forse si scrive +1476+, non ho capito. Concettualmente da tenere sott’occhio: suonano punk epico mischiato con folk ancestrale (folk di nessuna terra o cultura in particolare), in brani dagli sviluppi convulsi e con svariati punti di contatto col metal (tipo qualche occasionale growl). Effetto ottobrata perché in fondo è come se fosse la musica di una primavera urgente, sacra. Un’esplosione di vita, e ve ne parlo ora mentre il mondo sta appassendo. Ottobre anomalo, in realtà. Diffonde Prophecy. Insomma, da buttarcisi a capofitto. Ma l’ora abbondante di In Exile m’è rimasta in realtà indigesta. Epoca di zucca e castagne per cui tutto questo sfoggio floreale non si abbina col mio umore? Non credo. Il punto è che non sono mai riuscito, in diversi tentativi e lungo i mesi, a terminare l’ascolto. Esagero, ma quasi non so come suonino le ultime tracce. E la recensione non potrebbe chiudersi qua? Non so, è che l’avvio è proprio invitante, con la canzone che dà il titolo al disco. Ci sono quegli ingredienti che dicevo prima e funzionano tutti. Funzionano bene. Social Distortion vs Alcest. Stranissimo. Il punto è che, per me, il gioco funziona sempre meno, canzone dopo canzone. Oh, se qualcuno invece è riuscito a finirlo tutto in un soffio e se la sente di parlarne un gran bene, si faccia avanti. Magari mi fornisce una chiave di lettura. Se sbaglio approccio, lieto di fare ammenda.

Più autunno dei THE RIVER invece non si può. Britannici, ordinariamente credo doom, ma A Hollow Full of Hope è invece un doom etereo (dream e slow, e vediamo se l’inglese vi aiuta a contestualizzare), post-parecchio. Praticamente le coordinate dei Tenhi. Le similitudini si fermano qui. I The River appaiono romantici, meno drammatici. C’è una voce femminile, gentile. Ci sono persino dei riff, lenti, un ingrediente non dominante, in brani lunghi, malinconici. Sono solo cinque e il disco dura quaranta minuti. Fate voi la media. Anche qui il folk non è folk. È tratteggio, è chiaroscuro. Forse non un disco fondamentale, non un disco da recuperare ad ogni costo. Ma ha il suo perché, tra le foglie secche ed il primo odore di legna bruciata. (Lorenzo Centini)

minchia i Tenhi alla fine ce l’hanno fatta a finire il disco! per me la migliore notizia musicale dell’anno! dieci anni passate a guardare 4-5 volte all’anno su quel cazzo di loro sito ammuffito utustudio.com in cerca di notizie sul disco nuovo…a fine anno scorso ho gettato la spugna, convinto che Tyko e Ilmaari si fossero dati alla produzione di marmellate di frutti di bosco… Contento di essermi sbagliato. “Saivo” a dirla tutta mi era sembrato un po’ spompato ma sono fiducioso per questo nuovo. Onore a te Centini per la segnalazione, sei un grande a prescindere! Ora aspetto che moglie e figli se ne vadano a dormire e me lo sparo tutto in cuffia! peccato avere finito il cognac comprato in Armenia, con la giornata piovosa ci sarebbe stato bene! Comunque che figata i Tenhi! Chissà che a questo punto non tornino in attività pure i Kauan, a loro volta influenzati pesantemente dai finnici…non ho trovato notizie recenti su di loro, spero ce l’abbiano fatta a levarsi in tempo dall’Ucraina
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La giornata è piovosa come si conviene. Ho fatto una zuppa con le cotenne del prosciutto e le foglie dei cipollotti. Gratis. Ma con una salsa da un milione e mezzo scoville. Ho addosso una tuta di felpa piena di peli di gatti. Mi metto su un divano in compagnia di gusci di semi di zucca, freddo dalla finestrella che non chiude, rimasugli di tabacco, macchie, una coperta corta e bucata. E non trovo un disco più adatto di questo
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Non so. Vediamo. Anzitutto: credo che il disco più interessante della penta-carrellata che proponi sia quello dei 1476. Croci incluse o meno. Mi è piaciuto ma ci sono dovuto tornare dopo una disintossicazione.
Voglio dire: il punto è consentirsi di abbinare cose che stanno agli antipodi. Se leggo Cioran poi ci devo mettere vicino qualcosa di Levinas. Perché il primo decostruisce, il secondo eternizza.
Nella musica del destino il tempo conta molto poco. Si dilata sino a tendere all’infinito. E le stesse categorie tipiche del modo di essere cosciente della mente vengono meno. A quel punto smetti, Centì. Buttati sul metal-core o su proposte dove la struttura ti riaggancia allo scorrimento cronologico del tempo. A me fa abbastanza schifo al cazzo il metal-core (de sta città), per esempio. Poi però ho sentito quasi per caso The Death we Seek dei Currents e ho detto: cazzo. Cazzo! L’eccezione che conferma la regola. Tipo Ciccio Russo che recensisce gli Heaven Shall Burn (e che disco quello, porcaccio dio. Che gran disco e che grande onestà intellettuale Ciccio). Sti Currents: un muro di suono devastante, quasi tridimensionale e senza passare dalla plastica. Sì, c’è qualche strofa un po’ zuccherosa però per dio. Che pezza, che tiro, che entusiasmo giovanile. Che allenamenti mi sono fatto con loro.
Insomma, digressioni e ritorni.
Prova, poi mi dirai.
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Io Myrkur la adoro, in tutte le sue incarnazioni. C’è bisogno di definire il genere? Forse sarà stata brava a cavalcare l’hype soprattutto all’inizio eppure la sua musica funziona. Poi magari visto che ho vissuto nel nord Europa e sinceramente provavo un po’ di sana invidia verso donne così affascinanti come lei, e ce ne sono tante da quelle parti, questo può influenzare il mio giudizio ma in ogni caso continua a piacermi (in tutti i sensi).
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Sono d’accordo su Myrkur, la sua proposta è sempre molto interessante, dai primi post black, a quello mezzo pop, all’ultimo folk… Sempre bravissima, ma questo ultimissimo non mi è piaciuto.
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